Nostro nonno Learco. Mio nonno Gino. Mio padre Fausto.
Learco Guerra, Gino Bartali e Fausto Coppi raccontati da chi ne ha ereditato il cognome, ma anche la vita, la storia, le avventure, i valori. Learco e Carlo, nipoti della “Locomotiva umana”. Gioia, nipote dell’“Uomo di ferro”. E Fausto (o Faustino), figlio del “Campionissimo”. Venerdì scorso, al Pala San Vito di Bagnolo San Vito, nel Mantovano. Un appuntamento creato e poi rincorso e inseguito a lungo (da Silvio Trazzi e Fausto Armanini, anzitutto, poi dall’amministrazione comunale), vecchio sano ciclismo a cuore aperto, fra confidenze e ricordi, imprese ed episodi, parole e gesti, sorrisi e commozioni.
Guerra, il suo calore umano: “Non a caso preferito a Binda e acclamato a Napoli”, “Da Milano spesso tornava a casa con piccoli regali”, “Malato di Parkinson, per nasconderne il tremore metteva la mano sinistra nella tasca dei pantaloni o il braccio sinistro dietro la schiena”, “Nel tentativo di vincere il morbo, fu sottoposto a una innovativa operazione alla testa. La convalescenza fu lunga e faticosa. In famiglia tutti ci prodigammo. Anch’io. Siccome non sapeva più leggere e scrivere, lo allenai con la stessa tecnica con cui mi insegnavano alle elementari: aste e cerchietti” (Learco).
Bartali, i suoi brontolii e i suoi silenzi: “Ricordava, raccontava, elencava, precisava, spiegava. Era inesauribile. Ma sulla sua attività durante la guerra a favore degli ebrei non lasciava trapelare nulla. Neppure quella volta in cui facemmo una tappa del Giro d’Italia insieme in macchina, il nonno al volante, fra le staffette della polizia e il gruppo, il cruscotto pieno di cartoline da distribuire lungo la strada. Spesso mi sono domandata perché abbia rischiato la vita trasportando e consegnando i documenti falsi. Innanzitutto perché era cattolico, un cattolico vero, praticante, osservante. Poi perché erano pochi, pochissimi, quelli in grado di poter pedalare da Firenze ad Assisi e ritorno, 360 km, in giornata. Infine perché era conosciuto e riconoscibile, e da campione pensava di godere di una certa immunità. E quando ai posti di blocco mettevano le mani sulla sua bici, lui gli intimava di non toccarla” (Gioia).
Coppi, le sue ultime parole: “Alla fine dell’anno, era il 1959, fu ricoverato nell’ospedale di Tortona. Aveva la febbre alta e male ai muscoli delle gambe. Lo caricarono su una barella. Uscendo, mi accarezzò e si raccomandò di obbedire alla mamma. Fu l’ultima volta in cui lo vidi. Avevo quattro anni e mezzo, ma quella scena è scolpita nel mio cuore, nei miei occhi”, “La mamma rimase sconvolta dalla morte del papà, ebbe un esaurimento nervoso, per un mese non la vidi più. Così, all’improvviso, mi ritrovai senza genitori”, “La mamma era una donna coraggiosa, non mi fece mai mancare nulla, la amavo profondamente”, “Solo nel 1978 fui finalmente autorizzato a portare il cognome di mio padre”, “C’è ancora gente che mi racconta episodi legati a mio padre, così quello che non ho avuto da lui, lo ricevo adesso dagli altri” (Fausto).
Una serata non di nostalgie, ma di memorie. Una serata non di rimpianti, ma di confessioni. Una serata non di protagonismo, ma di condivisione. Una serata non di ciclismo d’epoca, ma di ciclismo eterno.
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