Per incappare nella frattura più brutta della sua carriera ha dovuto aspettare i 50 anni, ma Davide Rebellin non ha certo intenzione di farsi fermare dalla rottura di tibia e perone. Caduto lo scorso 18 settembre al Memorial Pantani, il corridore veneto classe 1971 ha dovuto, suo malgrado, mettere fine anticipatamente alla sua stagione, che lo avrebbe visto ancora una volta in prima linea. Ormai sono 29 gli anni da professionista, di generazioni ne ha passate almeno tre o quattro, eppure lo smalto non viene meno. Anche nel 2021, in maglia Work Service Marchiol Vega, si è tolto il lusso di chiudere in Top 10 corse a tappe come Adriatica Ionica Race, Sibiu Tour e Turul Romaniei, mettendosi alle spalle tanti giovincelli. «Tutto sommato qualche risultato lo porto ancora a casa, sennò mi sarei già ritirato. Poi, si sa, per me l'allenamento è un piacere» ha detto Rebellin. Quindi, non è finita qua.
Davide, innanzitutto come stai?
«Una brutta botta, una frattura scomposta. Devo ancora attendere circa un mese perché si formi il callo osseo e solo a quel punto potrò cominciare a forzare sulla gamba. Al momento mi muovo con le stampelle, senza far leva sulla gamba infortunata, e mi posso spostare senza troppi problemi in casa. Sto continuando con la fisioterapia e la riabilitazione, i miglioramenti si vedono, ma ci vuole ancora un po' di pazienza. Non voglio forzare».
Sai già le tempistiche di rientro?
«A inizio dicembre farò una nuova radiografia e spero a quel punto di aver fatto un bel passo avanti verso la guarigione. Prima della fine dell'anno conto di tornare in bicicletta. Potenzialmente potrei già uscire, ma è un rischio in caso di inconvenienti improvvisi ed è meglio non rischiare».
Avevi mai avuto un infortunio così grave?
«Così no. Ho sempre avuto problemi alla parte alta del busto, una lussazione alla spalla, costole incrinate, colpi al naso, ma mai alle gambe. Era una classica caduta da gruppo e ancora mi chiedo come sia stato possibile procurarmi questa frattura. Forse non mi si è sganciato il piede dal pedale, ma non saprei dire con esattezza. Ho capito subito che l'infortunio era grave quando ho visto che il piede era ruotato tutto dall'altra parte».
Sei riuscito a non annoiarti in queste giornate di stop forzato?
«In effetti non potevo fare molto. 2-3 ore al giorno le passo facendo esercizi a corpo libero per rafforzare la parte superiore del busto, addominali e braccia. Poi un'oretta e mezza di rulli, fisioterapia e una buona parte della giornata è andata. Poi cerco di portare avanti anche il mio lavoro con Dynatek, di cui sono testimonial e socio, con l'obiettivo di farla conoscere il più possibile».
Fossi stato più giovane, il processo di recupero sarebbe stato più rapido?
«Non lo so, forse sì, magari qualche settimana in meno l’avrei impiegata. Ma poco cambia, il mio obiettivo è tornare al 100%, recuperare tonicità sulla gamba, e tornare a pedalare, che è la cosa che mi fa stare bene. Poi che sia in gara o meno, si vedrà...».
A proposito, possibilità di continuare con la Work Service?
«Innanzitutto, vediamo come mi riprendo dall'infortunio, perché tre mesi di stop nella mia carriera non li avevo mai avuti e voglio vedere come risponderà il corpo. Non nascondo che avevo una mezza idea di ritirarmi a fine 2021 con le corse di settembre e ottobre, ma la mia lunga carriera non poteva finire con una frattura. L'idea è quindi quella di fare ancora qualche gara con la Work Service, magari a marzo, aprile e maggio. Mi piacerebbe chiudere con una corsa. E poi vorrei lanciarmi sul gravel...».
Cioè?
«Il prossimo anno l'UCI dovrebbe creare un circuito gravel e, con Dynatek, che ha sempre più richieste per quanto riguarda le bici gravel, stiamo pensando di creare una piccola squadra da portare ai vari eventi. Un 2022 tra strada e gravel non sarebbe male».
Quindi concordi con chi dice che sia il futuro.
«I dati delle vendite dicono questo, è un mondo in continua espansione. E sinceramente sono molto incuriosito anch'io. Non ho esperienza in questo settore e proprio per questo sarei molto motivato».
Finora è stato pensato soprattutto sul lato cicloturistico. Credi ci sia spazio anche per quello agonistico?
«Io credo che possa aprirsi ad entrambe le cose. Certo, l'appassionato di gravel è mediamente più un cicloturista, ma credo che ci siano i margini per farla diventare anche una disciplina competitiva. Negli Stati Uniti lo è già, con corse di 250-300 km, in Europa sarebbe tutto nuovo. Anche qui in Italia, però, si sta investendo molto sulla creazione e valorizzazione di questi percorsi».
Hai visto la Serenissima Gravel organizzata da Pozzato?
«Una bella iniziativa, mi è piaciuta. Credo che anche i team professionistici, e soprattutto i produttori di biciclette, possano essere interessati a questo tipo di format».
I ragazzi della Work Service, tuoi compagni di squadra, come si approcciano a un corridore con la tua esperienza?
«Mi osservano, mi fanno domande su allenamenti, alimentazione, cercano di interpretare le tattiche di gara. Sono una sorta di direttore sportivo in corsa, un riferimento, e i ragazzi sono sinceramente interessati a quello che faccio. E a me fa piacere aiutarli. Mi ricorda un po' quando io osservavo Franco Chioccioli e Gianni Bugno, anche se io non facevo domande perché ero molto timido».
Il ciclismo è cambiato negli ultimi 2-3 anni?
«Assolutamente sì. Anche il modo di correre è cambiato. Tecnologia, metodi di allenamento, biciclette, dietologo, psicologo, tutte cose che hanno portato a perfezionare la performance e ad alzare il livello in maniera esponenziale».
Ti sarebbe piaciuto essere un giovane nel ciclismo di oggi?
«Sinceramente no. Adesso è tutto più stressante, più schematizzato, con programmi specifici da rispettare. Non hai tempo di maturare, i risultati ti vengono chiesti subito. Quando sono passato io era tutto più blando, il primo Grande Giro l'ho corso a 24-25 anni, mentre ora a 20 anni sono già al top. Le squadre vanno a pescarli tra gli junior, anche se alcuni magari avrebbero bisogno di un percorso più lungo per maturare. Basti pensare che io, pur vincendo da dilettante, ho cominciato a raccogliere risultati importanti tra i professionisti dopo i 30 anni. Insomma, non invidio i giovani d'oggi».
Però danno spettacolo…
«Certo. Credo che Pogacar sia l'emblema del corridore moderno, in grado di vincere dappertutto. Lui però mi piace perché in bicicletta si diverte, basta guardarlo, sempre col sorriso, gioviale, spensierato. Un bel personaggio per il ciclismo».
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