Da Milano a Bellaria. Prima per la Via Emilia: Piacenza, Parma, Reggio, Modena. Poi sull’Appennino: Barigazzo e Abetone fino a San Marcello Pistoiese. Quindi Bologna e la Romagna. In bicicletta. Partì l’11 luglio 1907 alle 2 di pomeriggio dal dazio di Porta Romana, “dall’alto della mia vecchia bicicletta”. Arrivò cinque giorni dopo, “una borgata di pescatori su l’Adriatico, dove io ero atteso in una casetta sul mare”.
Alfredo Panzini, insegnante e scrittore, aveva 43 anni e mezzo: “Molto più fortunata di me, la bicicletta aveva trovato un meccanico che fermò qualche vite, rinnovò i pneumatici, e lubrificò i congegni. Per noi, creature di Dio, non esistono pezzi di ricambio… Noi, sventuratamente, abbiamo l’età dei nostri pneumatici, cioè delle nostre arterie, e non c’è laboratorio Dunlop che le rinnovi”. Non era la prima volta che saliva in sella e pedalava per viaggiare, cioè guardare ed esplorare, vedere e scoprire, osservare e studiare, e infine scrivere. Era già successo nel 1898, non da solo ma stavolta in due, partenza da Rimini e arrivo a Gubbio passando per Pesaro, Senigallia, Ancona, Loreto, Recanati, Foligno e Assisi. E quando la voglia era diventata necessità, quando la curiosità si era trasformata in urgenza – c’erano voluti nove anni -, Panzini era tornato a pedalare.
Nel 1907 la bicicletta era rivoluzionaria, anche nella sua forma agonistica e muscolare: il Tour de France era nato nel 1903 e il Giro di Lombardia nel 1905, la Milano-Sanremo scattò proprio quell’anno, l’epopea del Giro d’Italia sarebbe cominciata due anni dopo. Panzini, che non aveva il fisico dello scalatore, interpretò la bicicletta nella sua forma umanistica e letteraria: una buona scusa per scoprire il mondo, avvicinare la gente, indagare i comportamenti. E poi scrivere e descrivere. Nessuna attenzione a chilometri e medie (“Mi accompagnai con un ciclista tardigrado, che andava bene con me”) e massima concentrazione su alberi e fiori (“Per fortuna la gente si faceva rada, le querce frequenti”), albe e tramonti (“La stella del mattino era levata, sopra il castello, lontano ad oriente, di Montecuccolo”), cibi e bevande (“In quell’ora, in quella cucina, come se avessero saputo del mio arrivo; cioè dei gnocchi e della cacciagione di uccelletti, la cui testolina ad ogni giro di spiedo cadeva giù disperatamente”).
Il pedalare aiutava il professor Panzini a ricordare i classici (a proposito della fatica: “A tanta lontananza dal tempo in cui leggevo Omero, capii bene perché questo miracoloso poeta dice sempre degli eroi morenti: ‘si sciolsero le ginocchia’”) e soprattutto a conoscere (quel signor conte per il quale “la pratica della bicicletta, di cui fece conoscenza soltanto in questi ultimi anni, ha segnato il colmo della sua felicità di abitare in questo mondo”). Fino a elaborare teorie e sentenziare verità: “Il genio-maschio fa progredire a grandi impulsi la civiltà: il genio-femmina è il propulsore di quasi tutto il lavoro dell’uomo. L’uomo geniale è rivoluzionario; la donna geniale rivoluziona tutte le teorie morali, sconvolge l’ordine delle leggi, disorienta i cervelli e le famiglie”.
Il viaggio in bicicletta di Panzini è “La lanterna di Diogene” (Tarka, 214 pagine, 14 euro). Se Diogene era quel filosofo che di giorno girava per le strade con una lanterna per cercare l’uomo, Panzini è quel letterato che dalla mattina alla sera pedalava per la Via Emilia per recuperare storie, facce, situazioni, dialoghi, sentimenti, emozioni. Finché, raggiunta l’ebbrezza della leggerezza, “ieri a mezzodì mi sono perduto – senza alcuna meta prefissa – nel sole e nel verde. La bicicletta si era fatta automatica, ed io andavo come un sonnambulo”.
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