L'ORA DEL PASTO. L'OCCHIO (E LE BICI) DI FULVIO ROITER

STORIA | 19/09/2018 | 07:04
di Marco Pastonesi

Un uomo in bicicletta. L’uomo ha un cappello, forse una coppola, nera, una camicia, bianca, i pantaloni, grigi, le scarpe, da lavoro. La bicicletta è carica di fascine di legna, legate sul portapacchi, dietro la sella. C’è anche un fagotto. E accanto al fagotto c’è anche qualcosa che assomiglia a una pinna, forse è una lamiera, un materiale di recupero.


La strada, sterrata, è diritta, taglia i campi, taglia la pianura, taglia anche l’orizzonte, ed è segnata dai paracarri. Il cielo è sgombro, libero, infinito. Il sole proietta l’ombra dell’uomo in bicicletta. L’uomo e la bicicletta sono visti di spalle, da dietro. Osservando meglio, più in là ci sono altri uomini in bicicletta, con una fascina di legna sul portapacchi. Pedalano, trasportano, faticano. In Sicilia, da Gela a Niscemi, nel 1953.


E’ una fotografia in bianco e nero. Uno scatto paralizzato, un istante immobilizzato, un battito di palpebre e cuore, di storia e geografia, che Fulvio Roiter colse nel primo reportage della sua vita da fotografo, nella sua vita di fotografo. Veniva da Meolo, in Veneto. Aveva 27 anni. Abbandonati gli studi di perito chimico, si era dedicato – verrebbe da dire: si era consegnato, si era affidato – all’arte della fotografia. Il suo primo servizio fu proprio quello, in Sicilia, in treno e in bici, e con una macchina capace di “scrivere con la luce” e di “riprodurre quello che occhio e intelletto hanno visto”.

“Fulvio Roiter – fotografie 1948-2007” è in mostra nella Loggia degli abati, al Palazzo Ducale di Genova, fino al 24 febbraio 2019 (da martedì a domenica, dalle 10 alle 19, ingresso 8-10 euro). Fotografie non solo in bianco e nero (“Da sempre considero il bianco e nero come il solo metro con cui giudicare un fotografo”), ma anche a colori (“Guardo col colore solo se prima non ci si è macerati con il bianco e nero in camera oscura”), stabilendo regole e limiti (“Al colore si può arrivare per caso o per calcolo, al bianco e nero no”).

Fotografie che coprono e ripercorrono 60 anni – appunto - di storia e geografia, di vita e mondo, dall’albero nudo come un crocefisso e diritto come una sentinella nella campagna verso Rovigo, alla Sardegna, al Brasile, all’Africa, fino alla sua Venezia (“Una sfida”, “Da innamoratissimo”, sempre lottando perché “l’abitudine distrugge l’occhio”).  
Ci sono altre biciclette. Quella di un bambino che pedala, libero, in una calle. Quella di un altro bambino che pedala, veloce, in una strada. Quella – rovesciata: manubrio e sella a terra, ruote all’aria - di due uomini all’ombra di un albero. Biciclette testimoni, biciclette compagne, biciclette complici. Lo scatto di un fotografo ha qualcosa dello scatto di un corridore. E viceversa. Poi, come sosteneva Roiter in un documentario-intervista a Renata Tardani, “la vita è casualità, è mistero, ed è anche fortuna”. Così solo certi scatti diventano misteriosamente fughe e solo certe fughe arrivano fortunatamente al traguardo.


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