ADISPRO. BRUNO VICINO RACCONTA LA VUELTA DI ARU

PROFESSIONISTI | 05/09/2018 | 07:44

«Le volate le vincevo eccome. E se ho vinto tre mondiali stayer significa che la pista fa bene». Parola di Bruno Vicino, tre volte campione del mondo stayer, una specialità oggi eliminata dalle prove ufficiali ma con un fascino che persiste nel tempo. Vicino, trevigiano di Villorba ma da tanti anni residente a Bergamo, era un velocista di rango. Ma per la legge del contrappasso adesso è alla Vuelta, in forze alla Uae Team Emirates, e in ammiraglia segue Fabio Aru, uno scalatore.


Che consigli può dare un velocista ad uno scalatore come Aru?


«Eh, non è semplice. Qualche dritta su come non farsi staccare in pianura. Cosa che a me accadeva poche volte. Il ragazzo sta bene, sta migliorando giorno dopo giorno. E noi come gruppo di direttori sportivi, conoscendo il suo valore, ovviamente lo supportiamo al meglio. La fiducia in sé stessi è la componente fondamentale che troppo spesso manca in questi ragazzi. Ha perso 40” ma di sicuro è in recupero».

Da ex campione del mondo e direttore sportivo come valuti questi ragazzi che passano al professionismo?

«Purtroppo noto troppo spesso che i ciclisti di oggi sono già abbastanza spremuti, non viene dato loro il tempo di crescere e noi ds professionisti dobbiamo insegnargli un nuovo modo di correre. Arrivano che troppo spesso credono di sapere già tutto, già dei professionisti anche tra i dilettanti, lasciando a volte poco margine di miglioramento. Quando correvo io, ho fatto solo un anno da corridore dilettante di terza serie, sono passato nello stesso anno di prima serie, tra le fila della Samoa, una squadra toscana con una affiliazione in Veneto. Eravamo quattro corridori veneti, Renato Rossetto, Remigio Bellini, Roberto Rosoni ed io e con noi anche il toscano Piacentini. Il ds era Arnaldo Bortoletto. Un direttore sportivo davvero temutissimo. E poi via con i professionisti, grazie alla mediazione di Giovanni Pinarello nella Jolly Ceramica. Nel 1983, 1985 e 1986 ho vinto i tre mondiali stayer, ma nel frattempo avevo già corso dieci Giri d’italia e un Tour de France a 21 anni, mettendoci tanta grinta e determinazione».

E adesso dall’ammiraglia come ti sembrano questi ragazzi?

«I giovani corridori oggi arrivano già ben preparati e raggiungono livelli di conoscenza per noi impensabili al tempo. Non dico che i diesse di una certa età come me non abbiano nulla da insegnare ai ragazzi. Anzi. Dobbiamo fargli recuperare anche un po’ la fiducia di capire le proprie sensazioni, quando si è in bicicletta. I watt contano moltissimo, ad esempio Aru lo seguiamo passo passo nella sua Vuelta grazie anche alla tecnologia ma qualche volta devono capire di ascoltarsi di più. Fabio lo abbiamo “impostato” per fare una buona classifica, ora dobbiamo solo attendere il suo totale recupero in vista anche dei mondiali».

Sei direttore sportivo dai primissimi anni Novanta. Com’è cambiato il tuo ruolo?

«Adesso c’è tutto uno staff di contorno al diesse, medici , preparatori, biodinamici, allenatori, dietologi. Il direttore sportivo deve assolutamente recuperare la figura centrale che aveva, anche per un ruolo di gestione globale di atleti e programma. Insomma non si vive di soli watt».

La tecnologia però va avanti..

«Ben venga. L’avessi avuta quando facevo il pistard. E non era semplice fare pista ai miei tempi. Noi italiani eravamo sempre un po’ sottovalutati. C’erano svizzeri, olandesi, tedeschi. Se in pista vinceva un italiano erano dolori. Ci si allenava a Bassano e Varese. Quanti ritiri abbiamo fatto lì. E poi d’inverno al Palazzetto dello Sport. Avere un direttore sportivo che è stato pure campione in pista serve a dare anche consigli su come impostare le volate. E soprattutto cerco di trasmettere ai ragazzi come usare al meglio la tecnologia e le proprie potenzialità. Ed evitare gli errori, in corsa, che posso aver commesso io. Tanti ragazzi buoni in gruppo ci sono. Basta solo lasciarli crescere e come direttori sportivi guidarli cercando di capire di cosa possono soffrire in gruppo, facendogli ritagliare il ruolo a loro più consono. Insomma se sono diesse tra i professionisti dal 1990 vuol dire che qualche buon consiglio ai ragazzi, dall’ammiraglia, ho saputo darlo».

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