Sono a tinta unita o in bianco e nero, a strisce o a pois, a spicchi o a fasce, con il marchio o con lo sponsor. Sono vintage, cioè d’epoca, ma così vintage da essere quanto più di moda si possa immaginare. E sono design, cioè grafici e stilizzati, ma così design da essere quanto più all’avanguardia si possa indossare. Perché si indossano, si infilano, si mettono. In testa.
Cappellini. Cappellini, o berrettini. Quelli del ciclismo, quelli vecchi, quelli di sempre. Quelli con la visiera rigida, che – giù dalla bici – i corridori giravano all’insù per mostrare il nome di una cucina o di un salumificio o di un mobilificio che gli pagava lo stipendio. E che – in bici – i corridori giravano indietro, si diceva “alla belga”, non tanto per copiare i belgi e neppure per coprire la nuca, quanto per non perderli strada facendo, o strada volando.
I cappellini servono per proteggere e custodire, per distinguersi e appartenere, ricordando ed esibendo. Sono il simbolo del ciclismo di sempre, dai tempi di Gino Bartali fino a quelli di Peter Sagan, perché prima si usavano copricapi da esploratori e da avventurieri, un po’ coloniali e un po’ nomadi, anche un po’ da motociclisti e un po’ da automobilisti. Ma adesso sono fashion, trendy, glamour, snob, perché appartengono alla memoria degli eroici e dei mitici, dei polverosi e degli intrepidi, dei carrarecci e dei francescani, ma anche al patrimonio e al guardaroba dello scatto fisso.
Armandino Tosatti – Armanden per gli amici – ne ha tremila, fra quelli da corsa (un migliaio) e quelli da fuori corsa, modello baseball, che adesso le squadre sfoggiano (e poi regalano, con un lancio tipo frisbee) nelle cerimonie da podio. Il primo da corsa: probabilmente bianco marchiato Selle Italia. Il primo da fuori corsa: certamente Fiat, dove Armanden ha lavorato 39 anni. Lui di anni ne ha 69, è modenese di Nonantola, ha un culto per la Giacobazzi intesa come lambrusco ma anche come la squadra di Roncucci e Ronchetti e di Pantani e Cassani, e la passione per il ciclismo, ma tutti lo corteggiano, fino a seguirlo e inseguirlo, per l’aceto balsamico.
Armanden ne è un cultore: l’acetaia, le botti, le batterie, le bottigline, più sono piccole e più sono adorate, venerate, ricercate. E la madre. E il mosto nuovo. E’, quella dell’aceto balsamico, una sorta di religione, con i rituali e perfino le preghiere: quando entra nel suo sacrario, Armanden parla all’aceto, rincuorandolo o tranquillizzandolo, vi si specchia, lo respira, lo ascolta, lo sente. E c’è anche un altro mondo di cui Armanden è cittadino ideale: quello della civiltà contadina. In un paio di capannoni custodisce attrezzi antichi da campi agricoli, che raccoglie per il Museo di Nonantola.
Così, quando lo vedrete aggregato al Giro d’Italia Under 23 a preparare rinfreschi e buffet, o impegnato nelle altre corse con il Team Orfeo Casolari fra le bancarelle e le miss, sappiate che Armandino Tosatti – Armanden per gli amici – è, a suo modo, un sacerdote.