PROFESSIONISTI | 07/04/2018 | 07:05 È come se il tempo si fosse irrimediabilmente fermato a quell’11 aprile 1999. Non vinciamo più la Roubaix dalla notte dei tempi. Dal secolo scorso, quando a sfrecciare felice e solitario nel velodromo più famoso al mondo, con la sua maglia tricolore targata Mapei, è Andrea Tafi da Lamporecchio.
È da una vita che non vinciamo la Regina delle classiche, la corsa ciclistica meno ciclistica di tutte. La corsa più carogna che ci possa essere sul globo terraqueo. E per questo la più amata, evocata, seguita e odiata di tutte. La Roubaix è tanto di tutto:anche se è per pochi. Qui tutto è di più. Qui tutto deve essere più di ogni cosa. Qui tutto diventa assoluto, e per questo chi vince non può essere considerato un semplice vincitore. Sulle pietre della Roubaix devi essere forte fortissimo, ma anche sorretto da una buona dose di buonasorte. Puoi anche vivere la giornata perfetta, con una gamba che non sente fatica e catena, ma se la Dea Bendata non ti sorregge per la sella, tutto diventa più difficile. Devi saper domare con abilità le carraie fatte di pietre sconnesse, ma devi saper far di conto anche con la “dama dai denti verdi”, così definivano la iella certi corridori della “belle epoque”.
Che la Parigi-Roubaix non sia la corsa prediletta dagli italiani è risaputo. Solo 12 successi in 115 edizioni. Nella storia ci sono anche lunghi periodi di vuoto tricolore sul pavè, come gli anni trascorsi dal 1980 (Moser) al 1995 (Ballerini); o quelli dal 1951 (Bevilacqua) al 1966 (Gimondi); e quello che più ci interessa da vicino, che porta la firma di Andrea Tafi.
«È la vittoria che più mi è restata nel cuore – ci racconta oggi il corridore toscano, 52 anni a maggio, salito ieri al Nord della Francia con altri 25 amici per correre la Roubaix degli amatori e assistere alla prova regina domani -. Ho sempre amato questa corsa, e ho dovuto attendere il mio momento: il mio turno. La Mapei è una corrazzata fatta solo di grandi corridori. Faccio due nomi su tutti: Franco Ballerini e Johan Musseuw, ma anche gli altri non scherzavano. Sono arrivato una volta terzo (’96), quando vinse Johan davanti a Bortolami e al sottoscritto. La famosa Roubaix delle polemiche, quella della famosa e discussa telefonata di Squinzi a Lefevere. Poi nel ’98 secondo, alle spalle di Franco. Infine primo, con un altro podio tutto targato Mapei».
Sei in maglia tricolore, la battaglia si scatena nella Foresta: tu non stai nella pelle… «Mi sento molto bene, dentro di me ho buonissime sensazioni. Penso: “se la sorte non mi gioca brutti scherzi…”. Parto deciso, in un tratto di strada asfaltata, dove nessuno pensa che io possa accelerare. Non c’è terreno e poi è troppo lontano, pensano. Io vado deciso, come se non ci fosse un domani. Non penso a nulla, l’unica cosa da fare è mettercela tutta, fino alla fine. C’è solo da vendere cara la pelle. Anche ai miei amici con la stessa maglia. La Mapei è forte, abbiamo più punte, e nel momento in cui decido di partire sono in un gruppetto di una quindicina di corridori, con Tom Steels e Wielfred Peeters. Poi gente di spessore come Tchmil, Hincapie, Vandenbroucke. Al Carrefour de l’Arbre il brivido: foro la ruota posteriore. Mi dispero giusto un attimo, alzo gli occhi al cielo e vedo a bordo strada un signore con il cappellino Mapei. È Mariotti, responsabile della filiale belga del colosso diretto dal dottor Squinzi. Ha due ruote: una gliela strappo di mano, mi cambio la ruota e riparto. Non mi prenderanno più». Al velodromo di Roubaix, a oltre 2′, si piazza Peeters, poi Steels, per un podio targato tutto Mapei, come già avvenuto in altre occasioni. Cosa ti è restato di quel giorno? «Tutto, anche se uno dei ricordi più nitidi e cari che ho è l’ingresso nel velodromo: un’emozione pazzesca. Quella è stata la sublimazione di tanti anni di lavoro e fatiche. Un velodromo che vibra di passione ed entusiasmo e urla a gran voce il mio nome: Tafì Tafì Tafì. Sono frastornato, per la fatica e la gioia. Mi sembra di vivere un sogno, sono in estasi. Ho smesso di girare sul quel magico anello, ma la testa continua a girare da sola. Sono ebbro di felicità. Considero questo il punto più alto della mia carriera. Indimenticabile, poi, l’abbraccio con mia moglie Gloria e Tommaso. Non c’è Greta: è troppo piccola, ed è rimasta a casa con i nonni. Se oggi sono felice? Mi sento compiuto e appagato, questo sì. In carriera non ho vinto tantissimo, ma sempre molto bene. Tre Monumenti in carniere, mi mancano soltanto la Sanremo e la Liegi: cosa vuoi di più?». Bei ricordi, quelli del ’99. Sembra di parlare ormai con un reduce della Grande Guerra. Anche tu Andrea, in pratica, sei un ragazzo del ’99… «Per certi versi sì, sono un reduce, ma spero che presto qualcuno possa prendere il mio testimone, per rinfrescare il nostro albo d’oro. Ce n’è bisogno».
Cosa fai oggi? «Gestisco con mia moglie il Borghetto: i nostri appartamenti nella campagna di Lamporecchio. E poi curo la mia linea di abbigliamento tecnico, AT (Tafi-cyclingwear.com, ndr), che mi sta dando grandi soddisfazioni, soprattutto al Nord».
Ma come la mettiamo domani: cosa pensi possa succedere? «Il mio favorito è Sep Vanmarcke: va fortissimo. Poi appena sotto metto Philippe Gilbert. Domenica scorsa, nel Fiandre, si è messo a disposizione della squadra: domani passa all’incasso. Vedrete, sarà uno degli uomini da battere. Sagan? Mah, lui è molto forte, ma se corresse per la Quick Step avrebbe vinto Fiandre e Roubaix… ».
Non è detto che non ci riesca domani. «Non trovo molto forte la sua squadra, ma spero di sbagliarmi. Seguirò anche con grande curiosità Wout Van Aert: sta facendo cose eccezionali. Questo è davvero un grande corridore».
Tutto bene, ma gli italiani? «Gianni Moscon mi sembra quello sul quale si può investire qualcosa, ma anche lui non mi sembra sorretto da un team all’altezza: ci vogliono squadre adatte a questo tipo di corse. Queste gare vanno preparate, pensate, digerite, respirate e interpretate nel modo corretto: non sono corse qualsiasi. Domenica scorsa ho chiesto a Lefevre come fa ogni anno ad avere una squadra così forte, lui mi ha risposto: “Ci lavoriamo tutto l’inverno. Tutti si devono mentalizzare a certi appuntamenti: anche l’autista del motorhome”».
E tu cosa senti? «Che per noi italiani sarà durissima. Spero che Filippo Ganna corra con un altro approccio mentale. Mi auguro che non si accontenti ancora una volta di andare in fuga per dire: ci ho provato. Deve provare a fare la corsa di testa, seguendo i grandi. Solo restando con loro il più possibile, nel vivo della corsa, s’impara a vincere. Io sono convinto che Filippo, che ha grandi doti, farà una grande corsa. Me lo sento. Vuoi un altro nome?».
Fai pure. «Oliviero Troia, se ne parla poco, ma il ragazzo ha stoffa da vendere. E poi mi auguro che faccia bene anche Matteo Trentin: ha avuto un inizio difficile, molto sfortunato, e si merita di cominciare a raccogliere qualcosa».
Parli da tecnico. «Non toccare questo tasto, in cuor mio ho un sogno».
Quale? «Quando Cassani si sarà stufato, mi piacerebbe fare il CT azzurro. Per me sarebbe il massimo. È il mio nuovo sogno nel cassetto».
E se Cassani non si stufa? «Continuerò a tifare per l’Italia e per Davide. Come farò domani. E come farò al Mondiale di Innsbruck, fino ai Giochi di Tokyo. Io intanto continuo a sognare… ».
Personalmente mi piacerebbe rivedere il \"Grillo\" Ct della nazionale,ho la sensazione di un incompiuta per lui,se non avesse abboccato alla proposta di Alonso di creare un superteam ....Nulla contro il \"Tafone \" ma forse è troppo tempo che non è nel giro giusto.
Cambiare tutti i CT
7 aprile 2018 19:27alde2004
Io darei una bella ringiovanita anche ai ct dei giovani, tranne le donne che ottengono ottimi risultati.
Se da juoniores e under non culliamo e cresciamo chi merita, difficilmente abbiamo talenti nei proff.
8 aprile 2018 00:54Line
io prenderei un CT di una squadra WT
abbiamo tanti italiani CT in squadre straniere che sanno fare il suo lavoro già da anni
non faccio nomi seno succede come l'ultima volta che dicono che sono di parte
dico solo che c'e una squadra che sta dominando questo inizio di stagione non dico altro
Marco
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