In casa Martinelli per non sentire aria di ciclismo, bisogna aprire le finestre. Questo lo dico io, che la dimora di Beppe Martinelli a Lodetto, in provincia di Brescia, la conosco da un po’. La signora Anna, Beppe, Francesca e Davide sono un concentrato di passione per le due ruote e questa frase mi è rimasta impressa nella memoria quando mi accolsero a casa loro qualche lustro fa. Oggi, a distanza di tempo, con un “Martino” che dice di essere andato in pensione, ritocco con mano questo sentimento contagioso.
«Sono sereno come pochi, non pensavo che a casa si potesse stare così bene…», mi dice Martino, capitano di lungo corso, che l’11 marzo prossimo taglierà il traguardo delle 70 primavere. «Mi chiamano di continuo per chiedermi come mi trovo, se mi mancano le corse e io faccio fatica a trasmettere il mio sentimento di assoluto compiacimento: sto bene. Sto bene con mia moglie, con i miei ragazzi (Francesca e Davide, sposati rispettivamente con Andrea e Rebecca Gariboldi, biker di livello) che da qui passano sempre e con i miei due nipotini: Leonardo di 8 anni e Alice di un anno e mezzo figli di Francesca e Andrea. Insomma, non mi annoio assolutamente».
Eppure sono in tanti a pensare che tu possa tornare quanto prima in gruppo.
«Non so su quali basi lo dicano. Potevo restare all’Astana, tanto più che Vino (Aleksandr Vinokurov, ndr) mi aveva chiesto di restare. Durante lo scorso Giro d’Italia gli manifestai il mio desiderio di fare un passo indietro, ma entrambi ci eravamo presi del tempo per pensarci fino a dopo il Tour. Vino poi mi ha chiamato, ma io sono stato irremovibile».
Perché?
«Perché ero stanco. Mi pesava soprattutto il lavoro organizzativo. Io avevo sempre portato avanti un lavoro di programmi, logistica e di ammiraglia. Negli ultimi anni con Francesca, mia figlia, poi quando ha scelto un altro team (la Tudor, ndr) sono andato per un po’ avanti da solo, ma le squadre sono diventate sempre più complesse, grandi e articolate e io ho cominciato a soffrire. Lo scorso anno Vino mi ha anche affiancato una bravissima ragazza, anche lei di nome Francesca (Tonelli, ndr) che mi ha sollevato da molti problemi, ma io ormai ero arrivato alla saturazione. Non ti nascondo che mi sarebbe piaciuto salire ancora un po’ in ammiraglia, ma è altrettanto vero che il tempo passa per tutti ed è giusto che ad un certo punto vadano avanti quelli più giovani di te».
Non senti la mancanza del gruppo?
«Quello lo sentivo anche prima, quando passavo ore davanti al computer».
Hai qualche rimpianto?
«Ma no, ho ottenuto tante bellissime soddisfazioni. A me è sempre piaciuto un sacco vincere e ho trovato ragazzi che mi hanno regalato successi strepitosi: da Marco (Pantani, ndr), a Stefano (Garzelli, ndr), da Gibo (Gilberto Simoni, ndr) a Damiano (Cunego, ndr), per arrivare a Vincenzo (Nibali), Alberto (Contador, ndr) e Fabio (Aru, ndr). Ho vinto tanto, anche se non mi sono mai seduto sugli allori. Mi chiedevi se ho dei rimpianti: ti dico che uno ce l'ho, non essere riuscito a far comprendere al mio team che Orlando Maini era un pezzo prezioso del nostro mosaico e meritava di restare ancora lì».
Dicono che sei un eterno insoddisfatto…
«Sono fatto alla mia maniera: arrivata la vittoria, per me c’è n’è subito un'altra da inseguire».
Dicono anche che sei un po’ orso…
«Dicono… (ride). Sono totalizzante. Ho sempre e solo pensato alla mia famiglia e al lavoro. Quando un corridore passava ad un altro team, io mi concentravo su quello che era appena arrivato: sui miei. Pensa che recentemente ho sentito Mikel Landa, un ottimo corridore e un ragazzo fantastico. Ci siamo sentiti per parlare di un caro amico spagnolo che purtroppo è venuto a mancare e lui ad un certo punto mi ha chiesto: “Martino, ma perché sei arrabbiato con me?...”. Sono rimasto basito: “Arrabbiato io, con te: e perché mai?”. Così lui mi ha spiegato che alle corse lo salutavo di fretta, talvolta sono con un lieve cenno della mano e io gli ho dovuto spiegare che la colpa è solo mia, perché non sono bravo a tenere le relazioni, sono fatto così: temo sempre di rompere le palle. Sai a quanta gente mi piacerebbe telefonare ma ho sempre il timore di dare fastidio? Una infinità».
Segui il ciclismo?
«Ma che domande mi fai? Più di prima, forse anche meglio. Ora me le gusto come pochi. L’altro giorno, seconda tappa dell’AlUla Tour, il rossocrociato Yannis Voisard della Tudor in un arrivo in salita ha perso il 6° posto per schiacciare il pulsantino del computerino posto sul manubrio. Mi sono detto: ma questi ormai sono alienati. Sarà meglio un 6° posto anziché un 7°: no, per loro è più importante schiacciare il pulsante per avere i dati. Come vedi, seguo le corse…».
Le segui bene.
«E noto queste distorsioni, che in verità prima avevo sotto gli occhi. Ma non è colpa dei ragazzi, loro sono solo l’ultimo anello di una catena che ha ingabbiato tutti».
Si dice che i ragazzi siano troppo social e poco sociali.
«Vero, ma ripeto, non è colpa loro. Oggi tutto è esasperato, sono iper connessi e controllati a distanza, non possono fare i furbi. Tutto è definito e programmato, quindi quando possono provano a staccare a loro modo: si connettono e sgombrano la testa».
Rimedi?
«Non saprei. Ora è dura, praticamente impossibile».
Da quando hai cominciato tu alla Ecoflam nel 1986 e poi alla Carrera di Davide Boifava è cambiato tutto.
«Un altro mondo, oggi è tutto più veloce e grande. Quando ti dico che è la testa che non ce la faceva più è per questo: se dovessi tornare a fare il tattico, quello non mi peserebbe. Quello sarebbe davvero il mio lavoro».
La nazionale sarebbe la ciliegina sulla torta.
«Ma leggo che non è possibile, o in ogni caso molto difficile. Certo, mi piacerebbe, sarebbe come una chiusura del cerchio, ma forse chiedo troppo».
Però ci sono tante squadre medio piccole da valorizzare.
«Per il momento mi voglio godere un po’ di riposo e andare in giro con Anna, mia moglie».
Ora è lei il team manager.
«Lo è sempre stata. Io sul lavoro sono un inguaribile accentratore, in casa un umile gregario, anche perché per anni sono stato in giro per il mondo».
Vai sempre a seguire le corse dei ragazzi?
«Sempre e anche quest’anno ci andrò».
Saresti utilissimo alla causa di team World Tour: un “talent scout” di altissimo livello.
«Beh, in un certo qual senso l’ho sempre fatto. Le corse dei ragazzini mi piacciono un sacco».
Intanto il nostro ciclismo non ha un terminale allettante, una squadra World Tour che attiri le attenzioni di tutti.
«E questo è un problema, perché basterebbe una squadra di serie A per risvegliare l’interesse di tutta la base. Il movimento italiano avrebbe bisogno di un team che faccia sintesi, che accolga i nostri migliori elementi, invece li disperdiamo tutti».
Ti è mai passato per la mente di provare a fare un team tutto tuo…
«Ho recentemente incontrato un manager di una bellissima azienda di marketing e comunicazione, che opera però fuori dal settore ciclismo, anche se il ciclismo lo conosce molto bene: ne abbiamo parlato più per curiosità che per altro, ma lui mi ha detto che al momento, in Italia, non ci sono possibilità di investire certe cifre».
Forse dovremmo ricorrere all’intelligenza artificiale…
«Guarda che nel ciclismo di oggi c’è già: molti per fare i programmi dei corridori si avvalgono dell’algoritmo».
È un bene o un male?
«Come sempre la verità sta nel mezzo: se lo misceli con la conoscenza di chi ha un briciolo di esperienza è il massimo, ma se ti affidi solo alla AI per fare un programma rischi di toppare. Ti faccio un esempio: il Nibali che è passato alla Liquigas: giovane e inesperto. Risultati pochissimi. Se ti affidi solo alla AI, cosa ti potrà mai dire: che è adatto a corsette di terza divisione, perché non tiene conto delle potenzialità, del motore di un ragazzo che è cresciuto con calma e in maniera esponenziale».
Con Nibali sei stato tu l’AI.
«Giro d’Italia 2011, la corsa rosa parte da Venaria Reale (vittoria di Alberto Contador, poi cancellata e data a Michele Scarponi, ndr) e uno dei manager dell’Astana, braccio destro di Vino, Darkan Mangeldiev, mi chiede: “Martino, dobbiamo tornare a vincere il Tour: c’è un corridore che possiamo prendere per puntare a questo traguardo?”. La mia risposta: “Sì, certo: Vincenzo Nibali”. E lui: “Prendiamolo!”. A fine Giro, a Milano, in un hotel a te caro visto che da anni ci fai la Notte degli Oscar (Il Principe di Savoia, ndr), Vincenzo firmò il contratto con noi. Nel 2012 restò ancora un anno con la Liquigas e nel 2013 passò con noi: nel 2014 sai come è andata a finire».
Esco da casa Martinelli dopo qualche ora di chiacchiere con un caro amico. Apro la porta e il sole è ancora alto, c’è aria di primavera.
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