Alto, snello, diritto. I capelli folti, lo sguardo buono, il naso da corridore. A Borzonasca, un paese incastonato nell’entroterra ligure di levante, per tutti era “il gregario di Bartali”, più di un titolo nobiliare, più di una laurea accademica. Sei anni da corridore gregario professionista. Angelo Brignole, se fosse vivo, oggi compirebbe cento anni.
Andai a trovarlo, incuneandomi nell’alta Valle Sturla, che ricordo angusta e ombrosa. Mi accolse sorpreso e onorato – figurarsi – del mio interesse. E spalancò il cuore. E liberò l’anima. E svuotò lo scrigno, che poi si rivelò un forziere, dei suoi ricordi, dei suoi sogni, delle sue considerazioni. Compressi tutto in un articolo per “La Gazzetta dello Sport”, gli restituii aria e luce in un capitolo per “I diavoli di Bartali” (Ediciclo, del 2016), un libro dedicato a chi poteva raccontare Ginettaccio perché aveva avuto il privilegio, o la sorte, di correre insieme, contro e soprattutto dietro di lui.
Brignole che voleva diventare corridore: “Lo ripetevo quando stavamo seduti tutti intorno a una Radio Marelli. Era il 1934, avevo dieci anni, e si ascoltava che cosa facevano gli italiani al Tour de France. Ma per diventare un corridore, come minimo ci voleva una bici. La mia prima bici fu una Balilla di un rosso fiammante, comprata dopo anni e anni di risparmi: mettevo insieme pezzetti di rame e li rivendevo, e poi lavoravo come apprendista nella bottega di un calzolaio. Misi la bici in camera da letto e passai le prime tre notti in bianco ad ammirarla”.
Brignole che prima-corsa-prima-vittoria: “Un giorno mio cugino, che studiava da dottore a Genova, mi disse: ‘Vieni, c’è una corsa’. Ad Arenzano. Un circuito di dieci chilometri, da ripetere non so quante volte, sotto la pioggia battente e su strade di terra. Avevo una maglietta senza tasche e le mutande invece dei calzoncini. Alla fine del primo giro mio cugino mi disse che ero secondo, e io mi arrabbiai perché pensavo di essere primo. La verità è che ero primo, ma lui mi disse che ero secondo perché ci dessi dentro ancora di più. Infatti ci detti dentro: vinsi con quattro minuti di distacco”.
Brignole che correva e vinceva, che prometteva: “Nel 1942 conquistai il Gran Premio Vigor al Sestriere, centosessanta chilometri da solo, tre volte la Rezza e due il Pino, diedi cinque minuti a tutti. Fu lì che Virginio Colombo, soprannominato Battista, disse: ‘Questo batte anche Bartali e Coppi’. Colombo aveva conosciuto Girardengo e Guerra, Kubler e Bartali, e li aveva conosciuti con le proprie mani”. Massaggiatore. Se ne intendeva. “Ma non sarebbe andata proprio così”.
Brignole che era nella nazionale italiana al trionfale Tour del 1949: “Ho ancora nelle orecchie quello che ci raccontò una sera, a Pau, un macellaio italiano: ‘Sapete che cos’ha detto Robic? Oggi sul Tourmalet abbiamo stracciato gli italiani’. Eravamo ai massaggi. Coppi sussurrò: ‘Domani lo mando fuori tempo massimo’. Stavamo sui Pirenei, ma quella tappa, la Pau-Luchon, fu corsa come una cronometro di centonovantatrè chilometri. E Coppi rifilò dieci minuti a Robic. Dopo quel Tour trionfale ci volevano far diventare tutti cavalieri. ‘Per carità – risposi -. Ma ve lo immaginate, a Borzonasca, un cavaliere senza cavallo?’”.
Brignole che apparteneva a un’altra epoca, avventurosa, romanzesca, contadina: “Allora si mangiava tanto la sera e poco la mattina: tutto sbagliato. Si divoravano bistecche e polli: adesso spaghetti e riso. Ognuno aveva le sue abitudini: Coppi preferiva le tartine, Bartali buttava giù di tutto, Astrua si portava dietro il barbera, in Svizzera facevamo indigestione di cioccolato, in Italia avevamo lo zucchero nelle tasche”.
Grazie, Brignole, per tutte quelle parole. Grazie, Brignole, anche per il caffè. Grazie, Brignole, diavolo di Bartali battezzato Angelo.
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