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Chris Froome non lascia, ma raddoppia. E vede ancora il suo futuro in bicicletta. Il campione britannico è in ritiro in Spagna con la Israel-Premier Tech e ha concesso a Ciro Scognamiglio de La Gazzetta dello Sport una intervista a cuore aperto. Vi proponiamo i passaggi pricipali
«Fare il 2024 e il 2025 in sella è il minimo. Sylvan Adams (il patr del team, ndr) siamo molto vicini, non ci sono problemi fra noi Lui sa che ciò che sto facendo, non lo sto facendo per nessun altro che non sia io stesso. Io non guardo mai al mio passato con tutte le vittorie. Ho rischiato la vita, ho dovuto ripartire da sotto zero, imparando di nuovo anche a camminare. Ho avuto una seconda possibilità, e tutto quello che viene in più è un bonus. Sto continuando a inseguire i miei sogni, e voglio chiudere con zero rimpianti».
E ancora: «Nello sport io trovo ancora felicità, piacere. Sapete: provavo dolore al solo salire sulla bici, e ora posso ancora fare il mio ‘lavoro’. Il miglior Froome contro Vingegaard e Pogacar? Mi sono chiesto come sarebbe andata e la risposta è che non lo so. Certo, il Vingegaard visto all’ultimo Tour... Se continuasse così non so chi possa batterlo. Però sono sicuro di una cosa, che il livello generale in gruppo si è alzato di parecchio. Dieci anni fa, dopo 2-3 passi di montagna in una tappa ad alto ritmo, restavano davanti 20-30 corridori. Ora, 60. Certo, abbiamo bici molto più veloci. Poi, l’alimentazione: solo 5-10 anni fa non si pensava a un modo di mangiare così specifico per migliorare la performance nel ciclismo».
Infine, spazio alla nuova stagione: «In questo momento l’opzione Giro d’Italia non è sul tavolo. L’obiettivo principale resta tornare al via del Tour de France, nella migliore forma possibile. Ma spero davvero di fare qualche corsa in Italia. Magari la Tirreno-Adriatico, che mi è sempre piaciuta. Ho tanta energia e mi sento super-motivato per la prossima stagione: dovrei debuttare al Giro del Ruanda, dal 18 al 25 febbraio. L’Africa ha un potenziale straordinario che nel ciclismo ancora non si è visto, anche per mancanza di strutture. Ma in 10-15 anni ci saranno sempre più africani professionisti, come per esempio abbiamo visto di recente con i colombiani. E l'idea che ho, per il dopo carriera, è proprio quella di trasmettere ai giovani africani un po’ delle mie conoscenze e aiutare lo sviluppo del ciclismo in quel continente».
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