E’ un’assurdità, un’impossibilità, un paradosso. Dunque è un sogno, un’illusione, un’utopia. Ma è anche una sfida, un progetto, uno slancio.
La bici verticale. Da alpinisti, da sherpa, da free climber. E da sognatori, illusionisti, utopisti. Per salire, di più, arrampicarsi, di più, scalare, di più, ascendere.
E’ solo un’insegna, ma è anche un simbolo, un’aspirazione, un messaggio. Una bamdiera immobile, un’icona metallica. Per decollare e volare, per raggiungere le nuvole e arrivare al cielo, per trasformare le gambe in ali e vincere la forza di gravità.
Spuntano bici verticali. Questa è argentina, fotografata a Buenos Aires, ma ce ne sono anche a Milano e Roma. Verticale deriva da vertice, può dare le vertigini e far vibrare le vertebre. Le bici verticali non solo si lubrificano, ma si librano e si liberano.
Si vedono bici verticali per segnalare ciclofficine, presidiare musei, indicare mostre. Tese, appese, sospese. Sono imprese, quelle bici verticali, a prescindere dallo scopo, dall’obiettivo, dalla missione. Puntano in alto, mirano allo zenith, cercano l’assoluto.
Intanto la stagione delle corse è cominciata. I corridori hanno già abbandonato l’orizzontalità dei deserti e dei lungomari e affrontano l’obliquità degli zampellotti e degli strappi prima di cimentarsi con la verticalità delle colline e dei colli, dei valichi e delle forcelle, dei passi e delle montagne. Orizzontale e verticale, il ciclismo è fatto di parole crociate.
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