Subito un tocco di colore. Parte una nuova narrazione – ecco, l’ho detto, sono alla moda –, ed è già una grande fortuna poterla almeno iniziare. Un mezzo miracolo. Ho corso il serissimo rischio, peraltro non solo io nel battaglione dei giornalisti al seguito, di schiattare prima ancora di cominciare. Cotto al forno. Proprio come mi vorrebbero tanti amabili leoni della tastiera. Magari pure mia moglie.
Nell’era dell’iper-organizzazione, degli iper-budget, dell’iper-marketing, la grande partenza della corsa più dura del mondo nel paese più bello del mondo piazza il quartier generale dentro Fico, la cittadella del gusto italiano, ma gli ottomila chilometri quadrati del sito evidentemente non bastano per sistemare civilmente un centinaio di giornalisti, o quelli che sono. Per loro, un tendone nel piazzale esterno. Ed è dentro questo tendone che si registra un fenomeno inspiegabile della fisica: nel maggio più gelido del freddo Nord, la temperatura staziona stabilmente su livelli tropicali, potrebbero essere quaranta, cinquanta, sessanta gradi, proprio quel genere di temperatura che va molto adesso tra gli chef di grido, per cuocere la carne lentamente, fino a tagliarla con un grissino. Noi siamo proprio così, già prima di cominciare: spappolati.
Dopo un paio d’ore di tenace resistenza umana, il colpo di scena: come richiamati da un ancestrale istinto di sopravvivenza, gli inviati di mezzo mondo abbandonano il forno a microonde. Fuggi-fuggi generale. Si salvi chi può. Per incanto, qualche minuto dopo la sala-stampa del Giro d’Italia, della corsa più dura del mondo nel paese più bello del mondo, si ricompone nel modo più inatteso e più naturale tra i bar di Fico, dove fanno fracasso comitive di bimbetti in gita scolastica e sciure in cerca dello zenzero lucano.
Visto da fuori, è uno spettacolo grottesco e surreale. Pronti via e il Giro fornisce subito uno spettacolo di sé da piegarsi in due dal ridere. O da piangere. Le gente immagina chissà quali livelli di efficienza e di organizzazione, in certe manifestazioni. Basta che butti l’occhio qui, la gente.
So benissimo che la gente è ben felice di vedere come quei gran cornuti dei giornalisti, noti per essere magnoni e scrocconi, gaudenti e lazzaroni, per una volta vengano trattati come in miniera (anche là sotto effettivamente si suda e ristagna aria pesante, ma meno). Però dal mio punto di vista questo non è un problema dei giornalisti: noi, da parte nostra, saremo pure cornuti e viziati, ma sappiamo comunque ritagliarci un angolo ombreggiato in qualunque desolazione del mondo (in questo caso, arriva poi persino il nostro badante Angelo Morlin, la vera colonna del Giro da 41 anni, che ci fornisce pure di cavi elettrici per i computer). Il punto non sono i giornalisti: il punto è la levatura del Giro. Il suo prestigio, la sua fama, la sua forza d’urto. Siamo qui a raccontarci con tutte le autorità possibili e immaginabili, dai politici della regione Emilia-Romagna ai manager rosa, che questa manifestazione è la più importante e più popolare d’Italia, che deve essere il vero veicolo di promozione della bellezza italiana, ma continuiamo a cadere sui fondamentali. Anche al Tour capita di bollire nei tendoni: ma nelle tappe più ostiche e più impervie, in cima alle montagne più isolate. Non nel quartier generale del gusto e del buon vivere. Del benessere e del piacere. A suo modo, questa del 2019 è un’impresa di portata epocale, qualcosa che andrà ricordata come il Gavia e come la Cuneo-Pinerolo: in un’immensa città commerciale, con la più grande abbondanza di spazi e di servizi, riusciamo a ficcarci in un saccone di plastica a temperature disumane, nel maggio più freddo dell’ultimo decennio, cuocendo come zucchine. Ci avessero almeno cosparsi di maionese, prima di servirci.
E comunque: non sarà questo a fermarci. Ci vuole altro. Il Giro va a cominciare e finalmente si parlerà del tema specifico: chi lo vincerà, chi lo perderà. Per me, la trama è molto semplice: tutto un Paese, il nostro, spingerà il suo ultimo campione in quella che presumibilmente è l’ultima possibilità di tenere il Giro in Italia, almeno per vari anni (ovvio, intendo Nibali, prossimo ai 35: dopo di lui, chissà quanto bisognerà aspettare). Contro questo Paese remerà un Resto del mondo parecchio cattivo, come non capitava da diversi anni, con Dumoulin, Yates, Roglic, Landa, Lopez, Zakarin. Uno contro tutti è storia che piace sempre. Più ancora quando uno è il nostro. Ma è meglio esserne consapevoli: se gli riesce stavolta, non è nient’altro che un miracolo.