Il ciclismo è una ruota che gira, ed Elia Viviani non solo lo sa perfettamente ma è solito farla girare benissimo. Il ciclismo è anche pista sulla quale si gira, ed Elia si trova anche qui da sempre a proprio agio. Uomo di pista e di strada Elia, ma anche uomo di governo, nel senso che è atleta di punta e di riferimento di un movimento, quello italiano, che quest’anno può davvero gonfiare il petto per le 18 vittorie stagionali più una (cronosquadre, ndr) ottenute dal campione d’Italia veronese oltre ad un terzo posto nel ranking mondiale che risplende come poche altre cose.
Ultima gara della stagione alla Sei Giorni di Gand (13-18 novembre) vinta in coppia con il belga Keisse, o se volete la prima di quella che dovrà essere la stagione della conferma. Poi il grande ritorno in Coppa del Mondo, dove non lo si vedeva da prima della trionfale Olimpiade di Rio 2016 (oro nell’omnium). Berlino e Londra con sfide tra inseguimento, americana e omnium.
«Sai che mi piace un sacco correre, e in particolar modo in pista, lì dove ho il mio cuore. Ho ricominciato a pedalare da alcune settimane - mi spiega il 29enne veronese della Quick-Step Floors -, ma la qualificazione olimpica me la devo in ogni caso guadagnare, quindi...».
Vacanze poche.
«Ma no, vacanze bellissime. Due settimane con Elena (Cecchini, ndr) e una coppia di nostri amici (Marta Bastianelli, il marito Roberto e la piccola Clarissa, ndr) a Lampedusa. Siamo stati benissimo. La spiaggia dei Conigli è uno dei posti più belli al mondo».
Torni in pista, ma in verità, forse, non sei mai sceso…
«Verissimo anche questo. Ne ho fatta di meno, anche perché mi sono concentrato di più sulla strada, ma la pista resta un riferimento, un territorio nel quale amo sempre mettermi alla prova. Già quest’estate ho messo il naso in questo mondo per correre gli Europei in pista a Glasgow e quasi senza che ce ne accorgessimo siamo arrivati all’oro nel quartetto e all’argento nell’omnium».
Diciotto vittorie, più una cronosquadre: cosa ti brucia non aver vinto?
«La Gand-Wevelgem. Questa è chiaramente l’amarezza più grande. Era impossibile seguire Peter, per questo avevo puntato Demare, ma siamo rimasti chiusi».
Testa, esperienza e squadra: cosa ti ha fatto fare il salto di qualità?
«In ordine: squadra, testa ed esperienza. Questa squadra è arrivata davvero al momento giusto della mia carriera. Sono stato messo nelle condizioni migliori di sempre».
Pensavi di poter arrivare a questi livelli?
«No, ma ci speravo».
Non ti gira un po’ la testa?
«No».
Oro a Rio. Adesso una stagione da record: cosa è cambiato dentro di te?
«Nulla, sono sempre il solito Elia. Quello di Rio è stato forse il migliore Elia di sempre. È stato il mio punto più alto ma anche un punto di partenza, che mi ha dato una grandissima consapevolezza».
Al Giro la prima vera svolta: senza farti mancare niente. Nemmeno un pizzico di polemiche.
«Senza la Gand, l’inizio di stagione era stato come tanti altri. Il Giro, quindi, era un banco di prova altissimo. Due tappe subito, poi una giornata no a Imola. E meno male che mi è capitata lì, altrimenti andavo a casa. Una giornata no che mi ha messo in testa mille dubbi. Non ero malato, non c’era motivo di andare così piano. Forse ho patito uno sbalzo termico violento. Ho avuto paura che la mia condizione fosse svanita come neve al sole. Lo sfogo televisivo è arrivato da un atleta che pensava di aver fatto cose buone, ma che in un attimo si era giocato tutto: tutto era stato irrimediabilmente azzerato. Stress, paura e critiche mi hanno però aiutato a vincere il giorno dopo. Serve anche un titolo piuttosto duro della Gazzetta per farti scattare dentro qualcosa. Poi però mi sono scusato, anche con un tuo collega (Ciro Scognamiglio, ndr): lui non centrava niente, e poi il problema non erano i giornalisti, ma il sottoscritto. I fantasmi erano solo nella mia testa».
Alla Vuelta tutto più lineare, più chiaro, più sereno: consapevolezza di una condizione super?
«Assolutamente sì. L’apice della condizione l’ho toccato all’Italiano di Boario, se no non avrei mai potuto vincere una corsa di quel genere. Archiviata questa vittoria, ho sostenuto un bello stacco e alla Vuelta ci sono arrivato dopo un bel secondo posto a Londra nella gara del rientro. Vittoria agli europei della pista con il quartetto, poi vinco con la maglia tricolore sulle spalle ad Amburgo. E così arrivo in Spagna bello sereno e consapevole dei miei mezzi. Dovevo solo passare le montagne».
Cosa rispondi a chi ti dice: oltre ai 200 km è un corridore normale?
«Questo ormai non è più un problema. Amburgo vinto due volte, Plouay una. Se ho fatto un buco nell’acqua, questo è stato fatto solo alla Sanremo: 19°. Ma sono 300 km di corsa. Cosa potrei vincere? London Classic, la Cadel Evans, e poi ci sono la Gand e la Sanremo».
A quale velocista del passato pensi di assomigliare?
«Partendo dal fatto che i velocisti moderni devono essere diversi da quelli del passato, mi sento più vicino al Peta che al Cipo. SuperMario era di una potenza devastante: io non sono e non potrò mai essere così».
La cosa che fai sempre prima di una corsa?
«Controllo la bici da cima a fondo».
La cosa che devi sempre avere con te?
«Purtroppo il cellulare».
La prima cosa che fai dopo una grande vittoria?
«È automatico che la prima persona che incontro è il massaggiatore: Yankee Germano (Giro e Vuelta con lui, ndr). Un abbraccio profondo seguito da un urlo irrefrenabile».
Il rivale più ostico e quello che ti ha sorpreso in negativo.
«Kittel fa paura, è il più potente al mondo, ma quest’anno non è mai stato al top. Se ripenso al Giro, Bennett è stato molto bravo, ma poi è sparito. E poi c’è Sagan: Peter è Peter, è di un altro pianeta».
La vittoria che ti ha regalato più gioia.
«Emotivamente il tricolore: non sono abituato a vincere così. Ma anche l’ultima tappa della Vuelta a Madrid».
I punti di riferimento nella tua vita?
«Degli ultimi sette anni di carriera Elena (Cecchini, campionessa e compagna di Elia, ndr). È il mio centro di gravità permanente. Sullo stesso piano papà Renato e mamma Elena».
Chi sono gli uomini insostituibili nella tua professione?
«Fabio Sabatini. Con lui condivido 200 giorni all’anno la camera. Mi vede quando sono in crisi, quando sono in stato di grazia: lui c’è sempre. In pista ho Matteo Farronato (figlio di Franco, ndr), meccanico prezioso; mai avuto un massaggiatore fisso. Le tabelle di allenamento me le fa Tom Steels. Io però ho anche una mia esperienza, un mio storico e abbino le due cose. E poi c’è Fabrizio Borra: se non vado da lui la settimana prima di un grande appuntamento,è come se mi mancasse qualcosa».
Preciso, scrupoloso e rigoroso: la bicicletta te la sistemi da solo?
«Mi fido, ma sono molto attento. Al posto di cazzeggiare, se posso io scendo e vado al camion a verificare di persona i materiali. Chiedo sempre il meglio. A casa faccio sempre da solo. Solo la bici da pista non la controllo. Se Matteo mette dritto il manubrio significa che è dritto».
Quanto sei cambiato in questi anni e in che cosa?
«Non so se sono cambiato, sicuramente sono cresciuto. Alla Sky ho imparato a individuare gli obiettivi e a selezionarli. Prima cercavo di fare sempre benino, dalla Sky in poi ho imparato a togliere le vie di mezzo. Ha il suo rischio, perché non c’è quasi mai il piano B».
Il piatto preferito?
«La pizza. Una volta a settimana, anche se io la mangerei sempre. La mia preferita? Margherita con bufala o con il prosciutto cotto».
Ami bere?
«Vino rosso, ma non sono un amante. Se devo scegliere dico Amarone, sono di Verona. Con la pizza vado di birra: sono della Quick-Step. Non amo i superalcolici e cocktail: sono Elia Viviani».
La cosa per te irrinunciabile.
«Vincere».
Vacanze?
«Sempre e sempre più lunghe. Negli ultimi anni ho imparato a staccare e a riposarmi. L’anno scorso quattro settimane di stacco. E anche quest’anno non mi sono tirato indietro. Posto dei sogni? Maldive. Ma anche Lampedusa non scherza affatto».
Colore?
«Giallo, sin da quando ero piccolino».
Film?
«Non sono appassionatissimo. Guardo, ma senza malattie».
Attrice e attore?
«Tom Cruise e Penelope Cruz».
Canzone?
«Sempre attaccato a Spotyfy: ascolto di tutto. Ligabue il mio cantante preferito. “Sono sempre i sogni a dare forma al mondo”: canzone che mi ha dedicato Sky quando ho vinto l’oro a Rio. L’ho collegata e mi è rimasta».
Credi in Dio?
«Sì, ma frequento molto poco. Sono un po’ fuoricorso».
La Quick-Step una squadra di fenomeni: qual è il segreto?
«Il gruppo. Ci mettiamo a disposizione l’un l’altro: è incredibile. Ho rivalutato quest’anno anche il lavoro che fa lo staff. Il lavoro è molto più familiare, ma è chiaramente un valore aggiunto. Se non vinci, anche lo staff ha il muso lungo. In altri team è tutto asettico, impalpabile, più gelido: non ci sono emozioni. Quando si vince, invece, è una festa. Questo porta tutti a dare il 100%. A capo di tutto c’è un grande manager: Patrik Lefevere. Unisce il vecchio al nuovo. Ci mette testa e cuore».
Il tuo rapporto con Davide Bramati?
«Oltre ad essere un direttore sportivo eccezionale e un tattico super, penso che sia anche il più grande motivatore in circolazione».
Il talento più talento che hai in squadra.
«Julian Alaphilippe. Il prossimo anno vedremo il piccolo Remco (Evenepoel, ndr)».
Il talento più puro che c’è in gruppo?
«Peter Sagan».
Da ragazzino chi volevi essere?
«Quando ero piccolo, Marco Pantani. Poi le caratteristiche mi hanno portato a tifare per Tom Boonen».
La vittoria che non hai e vorresti aggiungere al più presto alla tua collezione?
«La Milano-Sanremo: è la corsa che darebbe senso a tutto».
Il corridore più forte che hai incrociato?
«Dico ancora Peter Sagan».
Cosa è successo a Marcel Kittel?
«Ha cambiato squadra senza portarsi dietro un gruppo di lavoro. Questa è stata una scelta azzardata. Nella vita si fa ben poco da soli».
Il complimento più bello?
«Me l’ha fatto Wiggins dopo le Olimpiadi, tra l’altro mi ha chiesto anche una maglia tricolore».
La cosa che ancora non ti è andata giù?
«Me le faccio passare abbastanza. Potrebbe essere la lotta con Gaviria: Londra 2016. Ma poi mi sono rifatto con gli interessi a Rio. Guardo poco dietro di me. È la mia forza».
Quando pensi a te tra qualche anno come ti vedi?
«Mi vedo nel ciclismo, ma devo ancora capire in che veste e con quale ruolo. In ammiraglia, a bordo pista, oppure in un ufficio di una grande azienda di bici. Mah».
Mare o montagna?
«Mare».
Lago o fiume?
«Lago di Garda».
Doccia o bagno?
«Bagno. Troppe docce, un bel bagno mi rilassa»
Lo sport preferito?
«Tennis. Djokovic è il mio preferito da sempre. Mai incontrato, ma prima o poi a Montecarlo (dove risiede con Elena, ndr) lo becco».
Lo sportivo più grande di sempre.
«Valentino Rossi».
Cosa pensi del ciclismo femminile?
«Ha raggiunto un livello super alto, soprattutto in questo ultimo periodo. Elena è una professionista esattamente come lo sono io».
Quanti consigli dai a Elena e quanti te ne da lei?
«A livello ciclistico gliene do molti più io, ma lei è l’unica che mi sa prendere nel modo giusto. Mi sa dare tranquillità».
Il tuo peggior difetto?
«Non sto mai fermo. Sono un po’ troppo irrequieto. Sono pur sempre un velocista: circolazione arteriosa veloce».
Il tuo vero pregio?
«Penso di esser buono».
L’impresa del 2018?
«L’Italiano».
Ti ha stupito Geraint Thomas?
«Sì, ma sapevo che sarebbe arrivato a vincere prima o poi qualcosa di davvero importante».
La differenza maggiore tra Sky e Quick-Step?
«Due gruppi di lavoro eccezionali, che sanno individuare e puntare gli obiettivi. Alla Sky c’è tanta razionalità; alla Quick-Step molta più emozionalità».
Froome pensi che possa vincere ancora il Tour?
«Assolutamente sì. Almeno uno».
Dumoulin sarà l’uomo da battere?
«Sì. È il vero rivale di Sky».
Vincenzo Nibali senza la caduta.
«Avrebbe vinto il mondiale. Il Tour no, ma non sarebbe arrivato lontano. Il podio era cosa sua».
La sua Sanremo ti ha sorpreso?
«Mi ha soprattutto impressionato. Non pensavo che fosse più possibile arrivare soli a Sanremo».
Fabio Aru: il perché di una stagione così storta?
«Una stagione da cancellare. Deve avere la forza di resettare e ripartire da zero. Lui non è questo».
Papà quanto ti ha seguito quest’anno?
«Tantissimo. Al Giro 17 tappe; alla Vuelta solo Madrid».
Ma Gianni Moscon è davvero così cattivo?
«Non è cattivo: ogni tanto gli si chiude la vena».
Come vedi il ciclismo italiano?
«Secondo me è di ottimo livello. È ovvio che il ciclismo ha bisogno di fenomeni: Moscon lo diventerà, Aru tornerà ad esserlo. Nibali c’è e ci sarà»
La pista tornerà ad essere centrale?
«Speriamo di raggiungere l’apice a Tokio. Il quartetto è un segnale importante. Il problema è il dopo: questo è un gruppo collaudato».
Quante sei Giorni quest’inverno?
«Una, a Gand, e due prove di coppa del mondo».
Il sogno è Tokyo 2020?
«Con il quartetto. Ma per me anche Omnium e la Madison. Ma credo che la medaglia che potrebbe premiare tutti sia quella del quartetto».
Montichiari: la pista fa acqua, ma galleggia.
«Vediamo quando ce la ridanno. C’è da apprezzare quello che stanno facendo la Regione Lombardia e il Coni. Sanno che siamo importanti. Tra uomini e donne sai quante medaglie possiamo portare alla causa azzurra…».
Treviso è l’impianto della consacrazione?
«Sì, penso proprio di sì. Non sarà solo un centro di allenamento. Personalmente per me, però, è più comodo Montichiari, ma Treviso sarà un impianto importante e strategico».
L’Oscar è…
«La ventesima vittoria. Premia la mia regolarità. È la prima volta di un velocista puro e spero che non sia l’ultima. Per il prossimo anno tenetemi almeno due posti a tavola: per me e per Elena».
da tuttoBICI di dicembre
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