| 11/07/2007 | 00:00 Il 13 luglio 1967, 40 anni fa, sembra ieri ed è un'eternità, moriva sul Mont Ventoux, nella frazione del Tour che portava a Carpentras, il ciclista inglese Tommy Simpson. A due chilometri scarsi dalla vetta, sotto l' arsura implacabile di una giornata torrida, sulle rampe spoglie della montagna in altra epoca immortalata da Petrarca, Simpson era caduto dalla bici una prima volta ed era stato rimesso in sella, misericordiosamente, da spettatori fin troppo frettolosi.
Duecento metri dopo, barcollando, il capitano della Gran Bretagna, quel Tour si correva infatti per squadre nazionali, sarebbe rovinato in terra, senza rialzarsi più. Finiva così, ancora senza consapevolezza, nella vicenda tragica di Simpson, il ciclismo dell' adolescenza ed iniziava un ciclismo diverso, quello della maturità, della presa di coscienza dolorosa ma sempre più dovuta di quel rischio doping nello sport, il ciclismo per primo, che non ha dato sino alla riprova dei giorni nostri segni concreti di saggezza. Simpson, crollato su una montagna che in preccedenza aveva vissuto le crisi meno drtammatiche di Mallejac e Van Genechten, prima vittima del doping...
La morte di Simpson, inutilmente soccorso dal medico del Tour, il dottor Dumas, e trasferito poi via elicottero all' Ospedale Sainte Marhe di Avignone, fu nella arida verità scientifica in verità molto più articolata. 'Il decesso di Simpson' - recitava il referto autoptico e tossicoilogico ufficiale - 'va attribuito ad un collasso cardiocircolatorio dovuto ad una sommatoria di eventi, rappresentati dai fattori ambientali sfavorevoli (afa, alto tenore di umidità), da uno stato di estremo surmenage psico-fisico e dall'uso di medicamenti scoperti nell'atleta. A tale riguardo, si precisa che le tracce di amfetamina rilevate nel corridore non avrebbero potuto da sole determinarne la morte'. Quelle amfetamine, il doping discreto di quei tempi, 'così fanno tutti', il cui uso lo stesso Simpson non aveva mai negato, ancora in una intervista concessa a Rino Negri, alla partenza proprio di quella ultima tappa, precisando però che gli eccitanti lui li prendeva solo d'inverno, negli allenamenti in Belgio, per aiutarsi sotto la pioggia:' ma in giornate calde come questa' - aggiungeva - 'con una sola compressa di metedrina salteresti per aria'.... Simpson, nato a Doncaster, in Inghilterra il 10 novembre 1937, morì così non ancora trentenne, dopo una carriera folgorante che lo aveva visto sbarcare in continente nel ’59 ed imporsi subito alla attenzione del pubblico. Già quarto, a soli 22 anni, nel Campionato del Mondo ’59 vinto a Zandvoort da Darrigade davanti al nostro Gismondi, Simpson avrebbe conquistato, igrazie alle sue qualità di lottatore ed attaccante indomito, il Giro delle Fiandre ’61 bruciando Nino De Filippis, la Milano-Sanremo ’64, dopo un avvincente testa a testa con Raymond Poulidor, primo britannico a riuscire in un’impresa considerata storica nel Regno Unito al punto da meritargli ìl titolo di ‘baronetto’ conferitogli dalla Regina Elisabetta, il Giro di Lombardia ’65 e nello stesso anno, in Spagna, il Campionato del Mondo, dinanzi a Rudy Altig… E fu primo inglese, ancora, o specialmente, ad indossare la maglia gialla, nel Tour ’62, concluso al sesto posto, il suo miglior risultato nella corsa francese. Quel Tour de France, dal profilo costellato da Alpi e Pirenei , che per il ragazzo inglese che aveva domato solo le colline dello Yorkshire avrebbe rappresentato la grande dichiarata scommessa della vita. Un traguardo su cui giocarsi, una volta almeno, purtroppo senza rivincita, il cuore.
Ed è ancora viva, dell'indomani della tragedia, la tenerezza spaurita di quella squadra della Gran Bretagna in maglia bianca che già si era sfaldata prima delle Alpi - superstiti con lui, capitano, i soli Denson, Hoban, Lewis, e Metcalfe - e la vittoria offerta, in segno di rispetto al povero Simpson, a Barry Hoban che si sarebbe presentato da solo, sul traguardo di Sete, in lacrime, e con quattro minuti di vantaggio su un gruppo attonito. E si ricorda ancora, un epilogo definitivo, qualche anno dopo, quando il segno del dolore si trasfigurò in una storia pudica che non sfumò mai nel pettegolezzo, ed Hoban sposò la vedova di Simpson e ne adottò i figli.
Dal Tour 1968, intanto, quei controlli antidoping che avevano fatto un esordio occasionale già al Tour '66 ed erano stati violentemente boicottati dai ciclisti stessi, divennero obbligatori. Per colpa, o per merito infinito, di Tommy Simpson, l'unico 'baronetto' del ciclismo.
Gian Paolo Porreca
(da 'Il Mattino' - 11 luglio 07)
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