| 08/07/2007 | 00:00 Partito il Tour de France, gli dedichiamo queste “Sportellate” della memoria, visto che lo conosciamo di persona fisica dal 1960, quando lo vinse Nencini. Il fatto è che – parere personale ma forse non isolato di chi scrive queste righe non esiste al mondo dello sport un evento che sia giornalisticamente e anche scoutisticamente più valido della corsa gialla che pure fuori Francia molti chiamano “grande boucle” senza sapere cosa significa (boucle cioè boccolo, ricciolo, un avvilupparsi del tracciato intorno alla pancia molle ed opima della pianura, con epicentro Parigi). Giornalisticamente il Tour è la classica occasione in cui lo sport non produce soltanto resoconto sportivo (su La Repubblica, Gianni Mura da anni regala e si regala un Tour anche quando non soprattutto enogastronomico, con risvolti artistico-culturali, e adesso ci ha scritto pure un libro che è un noir e perciò si intitola “Giallo su giallo”). Scoutisticamente è ancora un bell’andare, spesso nel gran caldo, per strade dure, senza le compiacenze autostradali ed alberghiere del Giro, un bel riuscire a vedere la corsa, se si vuole vederla, ed anche riuscire a fare lo scoop, se si vuole farlo. Non è un caso che in Francia gli scrittori grossi bussino ai grossi giornali chiedendo di scrivere cose dal Tour, mentre da noi Alberto Brambilla per mettere insieme il suo bellissimo libro “La coda del drago” sulla presenza degli scrittori al Giro d’Italia deve fare troppe tappe nella preistoria, tipo Achille Campanile o Dino Buzzati o Alfonso Gatto. Devo passare alla prima persona, per metter giù quello che è il mio più forte ricordo personale, personalissimo: l’arrabbiatura che procurai al collega Ruggero Radice detto Raro in quel Tour 1960, io neofita lui vecchio stimatissimo suiveur, io a balia attento a comportarmi bene, io con un gran mal di pancia e costretto a una sosta in un campo, io che dopo qualche chilometro mi accorsi che l’accredito, il macaron in francese, il pass in inglese, insomma il rettangolo di cartone con sopra la mia foto, il nome del giornale, la mia funzione era stato anch’esso depositato in quel campo (allora l’accredito non si portava al collo, ma alla vita, con un passante che lo ancorava alla cintura dei pantaloni: e si era sfilato). Raro era furioso, parlava di mia offesa alla sacra istituzione del Tour. Confuso e avvilito, cercai di farlo sorridere: «In fondo io ho fatto un favore al Tour, pensa al contadino, arriva lì e vede quello che ho lasciato di mio con che consiste nel sostituire la sponsorizzazione di una marca qualsiasi di bibite con quella della bevanda delle bollicine che è padrona del mondo. Ma anche il Tour dove la sera, indirettamente presentati dall’accredito, dal macaron, si passano ore con magari un professore di storia e filosofia a parlare del ciclismo e di Diderot, dove ogni ristorantino in cui entri riesce a farti sapere che tu sei l’Atteso da sempre, dove dandogli in cambio l’indirizzo di un posto dove comprare il miglior formaggio Roquefort del mondo la gerente di piccolo albergo riuscì persuadere un giovane giornalista allora non mai stanco a dormire su un materassino pneumatico, messo su un balcone di una camera occupata da altri. Dove (proprio in quel 1960) Gastone Nencini in maglia gialla chiese all’auto di Tuttosport un passaggio in un trasferimento, perché l’organizzazione lo obbligava altrimenti a prendere un torpedone zeppo e caldo, e fu ovviamente accolto ma dovette subito uscire sennò era la squalifica. Dove la gente bloccata, con l’auto nel prato di fianco alla strada, aspettava, aspettava paziente e quasi felice per tre ore il passaggio non della corsa, no, quella arrivava dopo cinque ore, ma della carovana pubblicitaria, con sul tetto di un camion di Tespi una antichissima fisarmonicista che eseguiva le sue arie composte per i soldati della Grande Guerra. Dove l’ufficetto delle sistemazioni alberghiere ti spediva a dormire a cento chilometri, ma non avanti sul tracciato della corsa, no, indietro, così che al mattino dovevi comunque passare al raduno di partenza. Dove (1967) il giorno prima di morire di caldo, di fatica, di cognac e di doping sul monte Ventoux il corridore inglese Tommy Sipson, che spesso metteva la bombetta per i fotografi, chiedeva al giornalista italiano se voleva prendere come lui una multiproprietà in Corsica, “così da vecchi rideremo insieme di questi giorni pazzi”, dove ad autopsia eseguita il procuratore delle repubblica usciva dal palazzo di giustizia di Avignone, o forse di Aix-en-Provence, e allo stesso giornalista che gli chiedeva cosa avesse in quella strana valigetta di acciaio diceva:“les tripes du coureur anglais”. Dove si poteva comprare, almeno nelle edicole delle città, l’edizione francese di Playboy, mentre da noi la televisione cuciva i vestiti delle Kessler.
da «Tuttosport» dell'8 luglio 2007 a firma Gianpaolo Ormezzano
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