Rapporti&Relazioni
Mamma tivù che tutto «globalizza»
di Gian Paolo Ormezzano

Dovendo scrivere della Milano-Sanremo per le pagine liguri de La Stampa mi sono fatto venire in mente un tema diciamo locale, che secondo me merita esposizione e - chissà - disamina su una pubblicazione come questa, usa a trattare il ciclismo con serio attento amore. Il tema è quello della teleglobalizzazione delle corse, o meglio di quelle corse che sono visitate e diffuse dalla televisione. La globalizzazione vera e propria è quel processo industriale, economico, mediatico mondiale per cui una cosa viene prodotta qui per essere venduta là dopo che lì hanno deciso di far sapere a tutti quanto è bella. Nel ciclismo è una corsa che si corre qui per essere offerta in visione anzi in televisione a quelli là che non stanno lì sulla strada, ma stanno magari in Papuasia. Come il prodotto di cui sopra, la corsa deve essere proponibile a un po’ tutti, deve essere commestibile per tutti, senza connotazioni troppo particolari che la raccomandino a certi sentimenti speciali di piccole specialissime tribù.In altre parole, una Milano-Sanremo deve essere confezionata televisivamente come le altre corse classiche, in modo che piaccia non solo agli esperti di ciclismo che stanno nelle Fiandre ma anche ai pastori di pecore in Patagonia. Se si mostra troppo mare, se i colori grondano troppo di sole, la corsa piace ai liguri, agli italiani ma rischia persino di irritare i francesi del Nord. Globalizzazione e tipicizzazione possono accompagnarsi soltanto in casi rari: una Parigi-Roubaix piena di cadute, grandguignolesca di corridori pesti e sanguinanti, è molto tipica ma piace a tutti per via di quell’assoluto naturale che è il compiacimento, sofferto quanto si vuole, per l’orrore.

Ecco dunque una Milano-Sanremo molto ma molto simile a una Liegi-Bastogne-Liegi, la primavera avanzata belga garante di luci nello «studio» simili a quelle dell’incipiente primavera italiana.Ecco la tappa del Giro d’Italia molto ma molto simile alla tappa del Tour.

Ipanorami diversi? Beh, a parte il fatto che ormai la cementificazione progressiva, l’inzozzamento generale delle strade con le scritte, i graffiti del tifo, l’omologazione di abiti e comportamenti delle folle, quando ci sono, garantiscono e intanto impongono un fondale comune a tutte le corse, i progressi tecnici della televisione e anche le invenzioni giornalistiche intorno, addosso e dentro alla corsa esimono spesso gli «addetti» da pericolose ancorché affascinanti avventure alla ricerca del panorama da mettere sul video.

Ci spieghiamo: ormai c’è la telecamera che, piazzata sopra una bicicletta, permette di frugare con il suo occhio elettronico il cuore del plotone, di scoprire la smagliatura nel muscolo di chi pedala. Poi ci sono i primi piani, ci sono le riprese rallentate, ci sono le divisioni di schermo, metà per Tizio metà perCaio che si stanno battendo a distanza, ci sono i giochetti magici della grafica, ci sono gli stacchi sull’arrivo, le interviste in corsa, le interpolazioni con il materiale d’archivio. Il tempo per il panorama, se proprio lo avesse ordinato il medico, rimane pochissimo.

Insomma la tecnologia e l’inventiva offrono molte cose da fare per mettere insieme il cosiddetto reportage con una pluralità, una abbondanza di ingredienti, sconosciute fino a poco tempo fa. E intanto il prodotto deve piacere sempre di più a un pubblico almeno teoricamente sempre più vasto, se non altro perché sempre più raggiungibile, e quindi sempre meno specializzato. Le concessioni poetiche, come quelle al panorama, all’ambiente magari con la sua flora e la sua fauna, sono un grosso rischio e possono persino venire eticamente messe in discussione, in quanto snaturanti l’essenza tecnica ed agonistica della manifestazione, con influenze nel giudizio su di essa. E poi, via: ci sono bambini che non hanno mai visto i cavalli se non nei telefilm di Zorro, e potrebbero patire uno choc se si accorgessero, da una telecronaca diretta di una tappa del Tour de France in Normandia, che ci sono grossi cavalli veri che pascolano nella campagna. Lo sponsor che chiede e impone l’apparizione comunque del nome del suo prodotto sul video, che il fondale sia la maglia di un corridore o il finto legno di un cartello, altro che divagazioni sul panorama, potrebbe persino dire che lui è un protettore indiretto dell’infanzia moderna, la quale non può e non deve essere aggredita da nessuna Arcadia repente, insolita, stravolgente.

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Mai un ciclista ha avuto così tanta attenzione ai suoi primi vagiti stagionali come Marco Pantani. Mai.Coppi era spaventosamente popolare, ma il suo inverno nella Riviera ligure non veniva inquisito, e di lui corridore si parlava a cominciare dalla Milano-Sanremo. Pantani ha avuto seguito immenso anche per un pedalicchiare d’assaggio in corsette remote.
Abbiamo scritto da qualche parte che Pantani sta in un cul-de-sac: ben che vada, insomma se vince di nuovo Giro e Tour nello stesso anno, la perfida gente moderna dice «uffa che barba» e magari scopre che gli avversari sono deboli. Forse anche per una specie di intuizione dell’impasse psicologico lui parla di correre la Vuelta. Forse il suo proporsi con scattini e persino successi nelle corse di primavera, che un tempo sarebbero state intese soltanto come occasioni di preparazione al Giro d’Italia, senza dispersione di forze, è un modo per cercare di uscire dal cul-de-sac arrampicandosi su muretti laterali.

Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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