Curioso e studioso, avventuroso e intraprendente, enciclopedico e logorroico, provocatore e invadente, letterariamente onnivoro e giornalisticamente bulimico, egocentrico eppure semplice e generoso, mai sentito lamentarsi né mugugnare, infinito eppure anche lui finito, finito oggi di respirare, di campare, di citare, di scrivere. Lui, GPO.
GPO. Tutto maiuscolo. Gian Paolo Ormezzano era maiuscolo, tutto maiuscolo. Era una macchina per scrivere, una macchina umana per scrivere. Ottantanove anni, di cui una settantina (lui – la timidezza non è mai stata il suo forte - se ne attribuiva addirittura un’ottantina) scrivendo, dunque uomo da marciapiede, cronista da strada, inviato da stadio e da palazzetto, da pista e da velodromo, la valigia sotto il cuscino, il passaporto dentro la tasca, la macchina per scrivere incorporata. Giornalista sportivo, da podio, sul podio, per numero di Olimpiadi (25 fra estive e invernali), Mondiali ed Europei (calcio, atletica, nuoto, sci, “anche ping pong”), di Giri d’Italia (28 “dietro ai ciclisti”) e Tour de France (15), di campionati, tornei, partite, di incontri e interviste, appuntamenti e componimenti, idee e progetti, migliaia di pezzi, pezzi di storia, e non solo di quella dello sport, pezzi di vita italiana, e non solo di quella sua. Grande GPO.
GPO se l’era già scritto lui, da solo, ci mancherebbe, il suo bel coccodrillo. Lo ha scritto in un libro, anzi, due, “I cantaglorie” (66thand2nd, del 2015, dove compare un autoritratto) e in “Io c’ero davvero” (Minerva, del 2021), “solenne affermazione giornalistica, e pazienza se trombonistica, dell’inviato speciale del giornalismo d’una volta, quello dell’andare-vedere-raccontare”, perché non aveva solo un fuoco interiore, una memoria prodigiosa, una scrittura fluviale, ma anche il dono dell’ironia e, soprattutto, dell’autoironia. Il primo bersaglio delle sue battute – era un peso massimo che colpiva freneticamente come un mosca – era lui stesso, “terribilmente e ferocemente sincero”, capace perfino di descrivere la sua doppia polmonite a 85 anni suonati, la sua debolezza auditiva, la sua voracità alimentare, le sue imprese, comprese due maratone, “42 km di corsa, finite da fachiro senza allenamento, a New York e Torino, a 60 e 65 anni”. Enorme GPO.
GPO nel giornalismo ha fatto il cronista, il redattore, il titolista, l’inviato, il direttore; la carta, la radio, la tele; lo studioso, l’appassionato, lo storico; il colorista, il corsivista. E a quel corridore (Alcide Cerato, poi specialista in onoranze funebri, e per questo detto il “Barista”) che gli domandava che cosa potesse fare “per non dover dire, a chi mi chiede qual è il mio lavoro, che faccio il becchino”, lui gli suggerì di inventarsi editore di una rivista dedicata alla morte. Titolo: “La Buona Sera” (“Mio gran bel titolo”, si vantava GPO). Direttore: GPO (che definì la rivista “di vita, morte e miracoli”). Gigantesco GPO.
GPO che diceva di scrivere “perché mi piace” e “altro non so fare”, che ammetteva di “aver perso tutto il mio patrimonio nei bond argentini” e che da allora scriveva anche “per soldi”, che confidava come “il giornalismo di viaggio mi inghiottì”, che si paragonava alla farfalla di Trilussa quando confessava “son modesta e me ne vanto”, che si liquidava, premettendo “pazienza se ormai si tratta di elogio semifunebre”, e poi concludendo “è stato bello, grazie di tutto a tutti”. GPO che spiegava di aver “visto gratis il mondo”, che precisava “non solo spesato nei bisogni primari (vitto alloggia lavatura stiratura, diceva Totò) e finanziato per viaggiare (aereo treno nave auto, anche scooter da me adorato), ma pure stipendiato, con pensione e liquidazione”. Questo significava trascorrere “metà di ogni anno fuori casa”. Immenso GPO.
GPO era quello che terminava le telefonate agli amici esclamando “viva noi”. Stavolta si merita il singolare. Viva lui, viva GPO. E grazie.