Rapporti&Relazioni
Doping, lo sport ci paghi i danni!
di Gian Paolo Ormezzano

Quando questa sporca storia del doping sarà finita, e non importa se bollita, fritta, insabbiata, annacquata, condita, ulteriormente salata e pepata oppure fatta azzima dalla mafia, il ciclismo dovrà esaminare l’opportunità... di una richiesta di danni al resto dello sport. O quanto meno di una fatturazione per collaborazione indiretta.
Bisognerà chiedere soldi al calcio per la lunga paziente dolente operazione mimetica che il ciclismo gli ha permesso di eseguire, usando i peccati del mondo della bicicletta per nascondere quelli del mondo del pallone.
Bisognerà chiedere soldi al Coni per i posti di lavoro creati nel laboratorio romano della Acqua Acetosa, fingendo di cercare, nel nome tristo del doping del ciclismo, anche il doping del pallone.
Bisognerà fare, insieme con l’atletica, un viaggio in qualche posto deputato della sacralità... ufficiale, per lucrare indulgenze in nome di sofferenze ed umiliazioni patite per conto della comunità tutta dello sport. Potranno, all’uopo, servire i prodromi del giubileo.
Bisognerà anche fare un altro poco di harakiri, rigirando la spada nelle viscere del ciclismo minore ed anche del cicloturismo. Ma sapendo di operare, questa volta, per i giovani che pedalano, non per l’alibi di massa dei giovani e dei non giovani di un po’ tutto l’altro sport, che a lungo si è fatto vergine, e in ogni suo anfratto, grazie alle deflorazioni patite da tutto il ciclismo.
Se nessuno del ciclismo pensa a questa causa, morale ed economica, noi cicloamotori, nel senso di amatori del ciclismo, dovremmo fare causa al ciclismo tutto.

Bruttissima anche se vera e magari necessaria la frase uscita dalla bocca di D’Urbano, il massimo preparatore atletico dello sci, l’uomo che ha rifinito l’atleta Tomba ed ha utilizzato le sciatrici italiane. Ecco la frase: «Si vedono sempre più biciclette da camera fra gli sciatori».
La bicicletta da camera, detta anche cyclette, è un ottimo strumento di esercizio fisico, pur se di tipo vagamente commendatoriale, tanto è vero che si vedono cyclettes anche nel salotto buono di case borghesi medio-alte. Nel mondo del ciclismo è diventata ultimamente simbolo di ematocrito alto, di pericolosa abbondanza di globuli rossi. La cyclette per una pedalata rapida, senza preparazione, quando si avverte un eccesso di vischiosità nel sangue, cioè quando, per via appunto dei troppi globuli rossi, il liquido vitale circola a stento, patisce intasamenti, può propiziare guai cardiaci serissimi.
Il ciclismo e lo sci, ma specialmente quello di fondo, sono sempre stati imparentati bene. Celebri (e no) discesisti e slalomisti, oltre che celebri (e no) fondisti, hanno usato d’estate la bicicletta per fare santa e proficua fatica, intanto che celebri (e no) ciclisti hanno d’inverno praticato lo sci, specialmente nordico e anche alpino: sempre per non perdere la tonalità fisica, e intanto per riuscire a divertirsi sudando.

Adesso c’è questa parentela nuova e non piacevole. Sembra una nemesi: dopo aver finito di fare da parafulmine, assorbendo la dose massima dello sdegno ufficiale antidoping, ad un po’ tutti gli altri sport, il ciclismo comincia a fare da infermiere, intanto però patendo moralmente qualcosa di nuovo: come se la cyclette fosse uno strumento normale inventato ed usato da un mondo di drogati o dopati abituali. Uno sciatore che si faccia fluidificare il sangue dall’esercizio fisico sulla cyclette è implicitamente uno che carica il ciclismo di un altro po’ di colpa cosmica.

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Marco Pantani ha stravinto quasi tutti i referendum di fine anno sul migliore atleta italiano 1998. Ne siamo compiaciuti, ma non possiamo non notare e far notare che questo riconoscimento a suo modo è limitativo. Perchè Pantani meriterebbe di più, meriterebbe riconoscimenti internazionali, mondiali, e però il suo uso forte, intenso, collettivo da parte del mondo sportivo italiano finisce per «trattenerlo» entro certi confini, bellissimi ma un po’ intimi. Un italiano vota Pantani, «esaurisce» Pantani e poi, quando gli chiedono di indicare il meglio atleta mondiale dell’anno, passa sulla Jones, su El Guerrouj, su qualche Piripacchio ostrogoto. Così è, anche se pantanisticamente lì per lì non vi pare.

Cosa fare? Niente. Al Tour abbiamo quasi spietatamente romagnolizzato Pantani, come se dargli dimensioni da strapaese lo difendesse contro allargamenti internazionali pericolosi. Adesso che lo abbiamo fatto tutto di paese, per averlo più paesano nostro, scopriamo che in fondo gli abbiamo piallato qualcosa, gli abbiamo tolto una dimensione. Non c’è niente da fare, se non farlo sapere e dire evviva Pantani, grazie Pantani, scusaci Pantani.
E a proposito: sull’asfalto di una strada quasi centrale di Torino è stato scritto in bianco «Pantani magico». La scritta sta resistendo all’inverno. Per una grande città è una novità, tenera e splendida.

Gian Paolo Ormezzano, torinese,
editorialista de “La Stampa”
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