Editoriale
SOSPETTI & SOSPETTOSI. Charly Brown, Paperino, dallo scorso 8 aprile anche Leoncino. Gianluca Bortolami è tornato, ma la sua espressione malinconica non è cambiata. Gianluca è fatto così, anche quando le cose gli giravano benone, nessuno l’ha mai visto fare capriole dalla contentezza. Invece, in quel fantastico 8 aprile c’è stato chi l’ha visto troppo serio, troppo preoccupato, poco trasportato da un successo dall’incredibile prestigio. Il sospetto si è insinuato tra i sospettosi. Chiedersi invece se quella faccia apparentemente imbronciata non foss’altro che affaticata? Domandarsi magari il perché? Tenere conto che correre a oltre 43 km/h di media un Fiandre potrebbe fiaccare anche un bisonte? Molti nostri colleghi, invece, non si sono preoccupati minimamente di guardare più in là del loro naso: Bortolami fatica a parlare, non saltella come dovrebbe? Beh, qui gatta ci cova... «Ha qualcosa da nascondere, teme di restare impigliato nelle maglie dei controlli antidoping...», hanno sentenziato quelli che la sanno sempre più lunga degli altri. Quelli che sono soliti fare (La Repubblica in testa) le inchieste sul ciclismo ma se ne guardano bene dal farle nel mondo del calcio. E quando le fanno usano tutte le cautele e le attenzioni del caso, non certo il manganello come per i poveri ciclisti. A noi, invece, la fatica scolpita sul facciotto di Gianluca ci ha fatto tirare un lungo sospiro di sollievo: vuoi vedere che i corridori sono tornati a fare fatica sul serio, e questa loro fatica la si torna a vedere scolpita sui loro volti? O li preferivamo prima, quando li vedevamo transitare sui traguardi con la fronte appena appena imperlata di sudore, tranquilli e riposati, come se avessero trascorso una giornata in spiaggia a giocare alle biglie?

RUBE’ RUBATA. Alla fine la vittoria di Servais Knaven è stata come una pietra scagliata contro una vetrina di cristallo. Non è stato per niente un bello spettacolo. Dopo una corsa fantastica, nella quale non sono venuti meno gli ingredienti essenziali per fare della Roubaix una vera Roubaix, l’esito finale è stato a dir poco imbarazzante. Come se in un film d’amore, i due alla fine si mandassero cordialmente a quel paese.
Quel giorno a Roubaix tutto stava andando come doveva andare. Tempo da Roubaix (pioggia, fango, vento); foresta di Aremberg decisiva come da tradizione; grandi campioni come Museeuw e Vainsteins, a farla da padrone. A dieci chilometri dal traguardo, però, ecco il colpo a sorpresa: scatta Knaven, per consentire a Museeuw di tirare un pochino il fiato dopo essere rientrato sui primi a causa di una foratura. I Domo restano fermi. Hincapie e Dirckxsens, anche. Fine della Roubaix. E così, la corsa che avrebbe dovuto premiare più di ogni altra l’individualità dell’uomo, viene ancora una volta decisa a tavolino da logiche di squadra. Gli anni scorsi dalla Mapei, che però ebbe sempre il merito (anche se criticatissima), di far vincere il migliore. Quest’anno dalla Domo che ha pensato bene, invece, di premiare il più modesto del lotto (se avesse vinto Peeters, sarebbe stato un signor vincitore...).
Adesso si dirà che è la Roubaix a far grandi i campioni e non viceversa. Noi restiamo dell’opinione che se un piccolo corridore vince la Roubaix, resta piccolo: vogliamo forse parlare di Guesdon? (vincitore nel ’97). E di Lefevere che dire? Per l’insana paura di perdere con Museeuw (inseguiva la terza Roubaix) e Vainsteins (avrebbe potuto vincere con la maglia iridata), ha pensato bene di vincere con Knaven. Proprio un gran bel stratega. Come quegli uomini che per far vedere che cuccano sempre e comunque escono anche con delle racchie immonde: l’importante è portare a casa il risultato.
Per far capire quanto a Roubaix abbiano apprezzato la vittoria di questo oscuro olandese, c’è la festa organizzata in onore di Franco Ballerini. Festeggiato, acclamato e persino nominato cittadino onorario. È difficile privarsi di un Ballerini. È ancor più difficile festeggiare un Knaven che nella tarda serata del dopo Roubaix è salito agli onori delle cronache per un eccesso di velocità. «Ho appena vinto la Roubaix», avrebbe detto goffamente ai poliziotti. Loro gli hanno fatto anche la prova del palloncino.

INTEGRATORI & INTEGRALISTI. Passaporti, scommesse, morbo di Gehring: il calcio finisce nella bufera. Ma c’è sempre un ma quando ci si trova a parlare del mondo dorato del pallone. I ciclisti sono dei drogati, i calciatori delle simpatiche vittime.
Intanto però saltano fuori giocatori che denunciano i loro mali, come Lauro Minghelli (28 anni) afflitto dal «morbo» di Lou Gehring, clinicamente conosciuto come «sclerosi laterale amiotrofica», che distrugge i neuroni del cervello e del midollo spinale addetti al controllo dei muscoli. Su 270 decessi «sospetti» individuati dal pm di Torino Guariniello, in base alle statistiche si attendeva un numero di casi inferiore a 0,30. Dall’apertura dell’inchiesta a oggi i casi trovati dal pm sono già 32. Tra essi anche una donna: un’ex giocatrice del Real Torino scomparsa nel ’91.
Se il ciclismo e i ciclisti sono storicamente il bersaglio ideale di chi si vuole sciacquare le coscienze in materia di doping, il calcio e i calciatori vanno invece capiti, tutelati, difesi da oscure manovre politiche. Insomma, il nandrolone non è assolutamente uguale per tutti. «Il calcio non ha bisogno di doping perché è uno sport di sola tecnica», hanno ripetuto per anni: difatti i calciatori oggi corrono tutti come dei satanassi per 120 minuti come se niente fosse. «Siamo preparati»: sì, certo, a tutto. E il nandrolone? «E chi lo conosce, noi siamo delle vittime, non ne sappiamo nulla». I medici gridano al complotto, i calciatori gridano al complotto, i giornalisti scrivono che è un complotto, la magistratura assolutamente persa e frastornata sospetta che sia davvero un complotto. Il ciclismo pensa molto più semplicemente che in questi anni avrà probabilmente anche fatto scuola, ma il calcio ha dimostrato di aver appreso benissimo. Anche a dire fesserie.
Pier Augusto Stagi
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