di Pier Augusto Stagi
Gentile, educato e disponibile: sereno. In bicicletta Chris Froome arde di fuoco vivo, pare indemoniato. Giù di sella è un vero gentleman, un testimonial del ciclismo: calmo e riflessivo. Sempre pronto ad accoglierti con un sorriso: come dopo l’impresa sullo Zoncolan.
Tornato in albergo a Gemona del Friuli, Froome trova Victoria, una ragazza friulana di Buja (il paese di Alessandro De Marchi, ndr), malata da tempo di una rara patologia del sangue, che con un sorriso disarmante e la voce tremula chiede al fuoriclasse del team Sky una maglietta con l’autografo. Lui la ascolta e le dice: «Aspettami qui, vado su in camera a fare una doccia e torno: massimo venti minuti, e sono da te…».
Dopo un quarto d’ora Chris è giù nella hall dell’albergo, con una sacca del Team Sky piena zeppa di ogni ben di dio: maglia, calzoncini, mantellina, cappellini e borracce.
«Queste sono per te…».
Lei, Victoria, lo abbraccia in lacrime, si fa fare l’autografo e la mamma della ragazza, Viviana, le scatta anche una foto con il campione del cuore. Tutti felici.
INGOMBRANTE. Froome, però, è anche una figura ingombrante e per il momento oscura. Quello che in questo Giro alcuni corridori non avrebbero neanche voluto vedere. Lo stesso Tom Dumoulin, il grande sconfitto, al via da Gerusalemme era stato più che chiaro: «Se fosse successo a me quello che è accaduto a lui, la mia squadra non mi avrebbe permesso di essere al via».
Parole taglienti come lame, che incidono la pelle e segnano il cuore: non quello del britannico, che sembra impermeabile anche alle parole caustiche pronunciare dal neozelandese George Bennett, ottavo in classifica generale, al termine della tappa di Bardonecchia: «L’impresa sul Colle delle Finestre? Alla Landis…».
Il riferimento al corridore statunitense è chiaro, e richiama l’incredibile vittoria di Floyd Landis al Tour 2006, quando l’americano andò in fuga per quasi 130 km in solitaria nella diciassettesima tappa giungendo al traguardo con sei minuti di vantaggio sui primi inseguitori. Quel Tour lo vincerà, ma poi sarà squalificato per una positività al testosterone. E a poco serve il tweet della Lotto NL Jumbo, la squadra di Bennett, per ridimensionare le parole del proprio corridore. «È solo un’espressione di ammirazione…». Sì, certo, come no.
TRE CONSECUTIVI. Nel frattempo Chris Froome si gode a pieni polmoni questo straordinario successo che lo porta ad eguagliare due mostri sacri del ciclismo come Eddy Merckx e Bernard Hinault, entrambi capaci di vincere tre Grandi Giri consecutivi. Se è per questo è anche il settimo uomo che entra a far parte del ristretto club di quelli che possono vantare la “tripla corona”, cioè aver vinto almeno una volta in carriera tutti i Grandi Giri. Ora è al fianco di Eddy Merckx, Jacques Anquetil, Felice Gimondi, Bernard Hinault, Alberto Contador e Vincenzo Nibali.
«È una vittoria speciale. È un sogno - racconta a più riprese -. È stata la sfida più grande della mia carriera. È fantastico essere riuscito a vincere tre Giri consecutivi. L’impresa di Bardonecchia? Il primo obiettivo era quello di vincere la tappa, ma non credevo assolutamente di poter prendere la maglia rosa. È stata una grande sorpresa anche per me. Quello che ho fatto resterà per sempre».
E sulla sua vicenda personale, su questo problema legato alla positività al salbutamolo riscontrato alla Vuelta dell’anno scorso, la maglia rosa non si nasconde e spiega: «Io so di non aver fatto nulla di male - dice -, abbiamo solo bisogno di un po’ di tempo per dimostrarlo. Ma in questo Giro non ci ho pensato: ero solo concentrato sulla corsa».
Una corsa che il britannico dice di aver amato.
«È stato un Giro speciale in un Paese speciale, voglio portare mio figlio in Italia per fargli conoscere un po’ questa terra e questa gente».
Gli chiedono, anche, se questa fatica la pagherà al prossimo Tour de France, dove il britannico andrà per inseguire una fantastica cinquina.
«Lo scopriremo solo a luglio, ma sono ottimista - aggiunge -. In passato si è visto che è stato difficilissimo rimanere competitivi al Giro e Tour, molti corridori hanno fallito, ma io credo che sia possibile. La sfida con Dumoulin? Semplicemente brutale».
FOLLIA. Sul Colle delle Finestre ha spalancato il cuore e ha aperto il gas. Si deve essere trovato come a casa. D’altra parte, è bene ricordarlo, Chris è nato sullo sterrato del Kenya, figlio di un diplomatico britannico. È cresciuto nella savana del Sudafrica, tra leoni e gazzelle. E sullo sterrato più alto e celebre del mondo, ha costruito la sua follia. Su questa mulattiera militare, capolavoro d’ingegneria, terreno di difesa dei Savoia contro le invasioni francesi, tra la Val di Susa e la Val Chisone, su questa strada che da Meana attraverso 45 tornanti di cui 16 sullo sterrato (media 9,1% e punte dell’11%), il britannico ha costruito il suo capolavoro.
Doveva recuperare 3’22” alla maglia rosa Simon Yates e 2’54” a Tom Dumoulin, il vincitore del Giro d’Italia 2017. È scattato a 80,3 km dalla conclusione, 600 metri dopo l’inizio dei 7,8 km di sterrato. Gli avversari lo rivedono soltanto in cima allo Jafferau, la montagna di Bardonecchia, in maglia rosa. Alle sue spalle il vuoto, pieno di fatica e di resa. Infligge 3’23” a un eroico Dumoulin, manda in crisi Pozzovivo a 8’29”, fa sprofondare Simon Yates a 38’51” e scoppiare in lacrime Chaves. Quella sera Froome guida con 40” su Dumoulin, poi il baratro: Pinot terzo a 4’17.
UNO CONTRO UNO. L’aveva dimostrato nel giorno del trionfo sullo Zoncolan, nel testa a testa con la rosa Yates. L’ha ribadito sul Colle delle Finestre contro Dumoulin, che commette il fatal errore di aspettare Pinot e il compagno di squadra del francese, Reichenbach. Difatti il britannico scollina con 40” sul gruppetto Dumoulin, che poi lievita a 1’50” in fondo alla discesa: un vero disastro tattico per l’olandese.
Froome vola via veloce. In discesa sfiora le rocce e il baratro: scende a 85 km all’ora. È stato il migliore in salita, fortissimo in discesa e nella “cronoscalata” verso Sestriere. Una prestazione che annichilisce i voli al Tour sul Ventoux 2013 e a La Pierre Saint Martin 2015. Al Giro dobbiamo tornare a Coppi del 1940 sull’Abetone o quello della Cuneo-Pinerolo 1949 per trovare un’impresa simile.
CORAGGIO. «In un momento difficile bisogna avere il coraggio di provare, anche se certe cose possono sembrare semplicemente folli - spiega il signore dei Tre Grandi Giri -. Sapevo che se avessi aspettato la salita finale non sarei riuscito a recuperare tre minuti. Abbiamo deciso, quindi, che avrei attaccato sul Colle delle Finestre. Lo scorso anno ero venuto qui a fare un training camp e conoscevo tutte le strade della zona. Sono stato in grado di gestirmi con il ritmo giusto. I miei compagni sono stati fantastici e mi hanno portato ai piedi del Colle in modo molto aggressivo, hanno stoppato tutti gli attacchi. Soprattutto hanno tenuto (Salvatore Puccio, ndr) un ritmo altissimo all’attacco del Colle delle Finestre. Per me correre così è l’essenza del gareggiare in bicicletta. È stata una pura corsa selvaggia. Questo è il Giro d’Italia. Le differenze con il Tour? Il Giro è molto più imprevedibile, più esplosivo. Può cambiare completamente e senza ragione da un momento all’altro. È come se il Giro fosse composto da ventuno classiche consecutive. Al Tour c’è un modo molto più schematico di correre».
BATTAGLIA. «Penso sia stata la battaglia più dura della mia carriera. La partenza è stata tutto fuorché ideale. L’unica cosa che non è mai cambiata è stata il supporto della squadra. Tutti mi dicevano che la corsa poteva cambiare in ogni momento. L’abbiamo visto chiaramente come in una giornata storta si potevano perdere minuti a manciate. È stata una gara brutale sia per me sia per i miei avversari. E nelle ultime tappe eravamo tutti al limite. A dir la verità mi è dispiaciuto per Simon (Yates, ndr) anche se ovviamente sono felice per come è andata a finire. Fino al crollo sul Colle delle Finestre aveva corso in modo fantastico. È stato un attaccante incredibile. Di questo ragazzo se ne sentirà parlare ancora, perché ha talento».
LE CADUTE. Gerusalemme e Montevergine di Mercogliano: due brutti scivoloni, che hanno compromesso e complicato in gran parte l’inizio del Giro. Poi il primo squillo di tromba sullo Zoncolan, prima della rumba al Finestre. «Quelli sono stati momenti molto delicati, ma il Giro si vince forse proprio in quei particolari frangenti, dove si rimane calmi e consapevoli della qualità del lavoro svolto. Bisogna avere forza, calma e determinazione. Io stato bravo ad avere tutto questo».
NUMERI. Terzo Grande Giro consecutivo, dopo l’accoppiata Tour-Vuelta 2017. È il terzo della storia a riuscirci dopo Bernard Hinault (Giro e Tour 1982, Vuelta 1983) ed Eddy Merckx (Giro e Tour 1972, Vuelta e Giro 1973): il Cannibale fece addirittura poker. I giorni da leader in un grande giro di Froome sono 82: 3 al Giro, 59 al Tour, 20 alla Vuelta. Meglio di lui solo Merckx (201), Hinault (125), Anquetil (110) e Indurain (93). Chris è diventato il ventiquattresimo corridore ad avere vestito la maglia di leader in tutti e tre i Grandi Giri. È il quinto britannico di sempre in maglia rosa dopo Cavendish, Wiggins, David Millar e Simon Yates. E sono tre i successi di Froome in Italia finora: la tappa di Prati di Tivo alla Tirreno-Adriatico 2013, lo Zoncolan e Bardonecchia (Colle delle Finestre e Jafferau) in questo Giro.
Sei Grandi Giri in bacheca sono tanti. Froome ha staccato tre giganti italiani fermi a quota 5: Alfredo Binda (5 Giri), Gino Bartali (3 Giri, 2 Tour) e Felice Gimondi (3 Giri, un Tour, una Vuelta). A quota sei non c’era nessuno, ora Chris ha davanti soltanto altri sei «colleghi»: Eddy Merckx (11), Bernard Hinault (10), Jacques Anquetil (8), Fausto Coppi, Miguel Indurain e Alberto Contador (7). E pensare che le vittorie avrebbero potuto anche essere di più: perse la Vuelta 2011 per appena 13 secondi dal carneade spagnolo Juan Josè Cobo, poi al Tour de France del 2012 dovette mordere il freno per non sfidare a viso aperto in salita (dove mostrava di avere una marcia in più) il compagno e capitano Bradley Wiggins.
Tra i corridori in attività, non c’è dubbio che siano Chris Froome e Vincenzo Nibali i migliori specialisti dei Grandi Giri (anche se Vincenzo può vantare una maggiore completezza di palmares, grazie alla Sanremo e ai due Lombardia, cui il rivale neppure ha mai pensato): questo Giro permette a Chris di allungare e di portarsi sul 6-4, anche se una decisione a lui sfavorevole all’ultima Vuelta potrebbe farli tornare 5-5, perché la corsa spagnola 2017 passerebbe allo Squalo.
IN ATTESA DI GIUDIZIO. Chris Froome ha vinto il Giro, ma a casa non si porta solo la maglia rosa, perché ci sono anche i dubbi e il peso di quella positività ancora non chiarita, che lo fa essere un vincitore in attesa di giudizio: “sub-judice”.
La storia è ormai nota: 7 settembre 2017, 18a tappa della Vuelta, nelle urine di Chris Froome viene riscontrata una quantità doppia di salbutamolo (antiasmatico, principio attivo del Ventolin) rispetto al consentito (2000 ng/ml contro 1000). Tecnicamente non è una positività, ma un «risultato analitico avverso», che potrebbe trasformarsi in positività qualora Froome e i suoi legali non dovessero riuscire a dimostrare la buonafede. In ballo c’è la Vuelta vinta che potrebbe essergli tolta (la vincerebbe Nibali, secondo classificato, ndr) e una squalifica che potrebbe arrivare anche a due anni. Il giudice unico del Tribunale antidoping Uci chiamato a esprimersi è il tedesco Ulrich Haas. Tempi della decisione? Ah, saperlo...
Ma nel caso ipotetico e remoto che Froome sia davvero squalificato, che fine farebbe il suo Giro d’Italia? La logica e i regolamenti inducono a pensare che la squalifica partirebbe dal momento in cui è comminata la pena. Il direttore del Giro Mauro Vegni è fermamente convinto di questo, peccato che qualche settimana fa il presidente dell’Uci, il numero uno del ciclismo mondiale David Lappartient, l’abbia seccamente smentito. Insomma, tutto bene. Tutto chiaro. In linea con tutta questa vicenda.
ASTERISCO. Il Giro finisce con un asterisco. Un Giro con un P.S. che va messo a piè pagina, ma che nella sostanza finisce per salire in cima a ogni discorso e pesa come un macigno. Disturba questo asterisco, perché noi come Froome vorremmo semplicemente celebrare il campione e applaudirlo: lui e quanti con lui hanno reso questo Giro 101 bello ed emozionante dall’inizio alla fine. Vorremmo davvero solo festeggiare e raccontare queste tre settimane di assoluta bellezza, in cui ha regnato la battaglia. Un Giro d’Italia folle e velocissimo, il più veloce della storia, con i suoi 40,105 km/h di media finale, più veloce di quello del Centenario, 2009, vinto da Denis Menchov (media 40,057), ma quello di quest’anno di gran lunga più duro e selettivo, con otto arrivi in quota, e vette come Etna, Gran Sasso, Zoncolan e Colle delle Finestre ben più probanti di quelle affrontate da Menchov. Se vi ricordate era un Giro senza Dolomiti, e la cima Coppi posta sul Monte Catria: non so se mi spiego.
Vorremmo solo celebrare questo fantastico Giro, ma gli interrogativi, i punti di domanda e gli asterischi sulla vicenda di questo vincitore restano e sono anche ben visibili. Sono qui in fondo, a piè pagina, ma tornano inevitabilmente in alto: e restano in testa.