Da Bartoli a Froome e ritorno
di Gian Paolo Porrecca
E dicono allora che sia finito male, per il pessimo stato delle strade di Roma, il Giro d’Italia bellissimo, nato nel segno di Bartali, appena concluso. Noi diciamo invero che è finito ancora peggio, inaccettabilmente peggio, ma a corsa finita, al Tg1 della sera, quando le immagini di Chris Froome in rosa ai Fori Imperiali sono sfumate - anzi deragliate - nella diretta dal Quirinale della più sgradevole crisi istituzionale che l’Italia degli ultimi trenta anni e più abbia vissuto.
Per colpa degli altri, dei padroni improvvidi che non conoscono gli angoli di casa loro e dei politici arroganti che non accettano le sconfitte, solo per tanta protervia, questo Giro d’Italia 2018, con l’imprimatur di Bartali, sarebbe dunque finito male. (E ancora peggio, se vogliamo, l’indomani, quando in prima pagina di tanti quotidiani, il Giro è stato onorato di visibilità per i basoli sgangherati di Roma, e non per la volata di Bennett su Viviani, o per il successo di Froome su Dumoulin).
Un Giro avvincente, del quale abbiamo applaudito l’epilogo incandescente, l’alternarsi dei successi e delle crisi, da Dumoulin a Yates, da Chaves ad Aru, da Viviani a Bennett, con quel loro 4-3 finale da intensa sfida di football antico, da Carapaz a Pinot, da Wellens a Battaglin, da Nieve a Mohoric, dal Froome dello Zoncolan al Froome dello Jafferau.
E un Giro nel quale abbiamo potuto coltivare ancora la nostra cocciuta passione, quella sospesa fra fiamminghi ed olandesi, con i due ragazzi Van Poppel, Danny e Boy, da seguire, nel sogno di emulare il padre Jean Paul, a vincere una tappa anche loro del Giro... Come riuscito a Eddy Merckx padre e Axel Merckx figlio.
E un Giro che ci regala, lo sapete bene, ma qui la prima pagina dei quotidiani è negata, non esistono più gli elzevirini, Adam Hansen, quel ciclista del mondo, australiano che risiede in Slovacchia e ha cominciato a correre in Austria e da anni gareggia ormai per formazioni fiamminghe, a siglare il suo ventesimo Grand Tour consecutivo, con la qualità tecnica del non arrivare mai ultimo, mai al traguardo solo per portare a casa la bicicletta. Giammai nelle retrovie, Hansen, ma sempre con dignità invidiabile, una vocazione oraziana, a metà classifica. Di questo Giro dall’assunto profondamente religioso, o almeno dai valori alti, fra la benedizione di Bartali e la partenza in Israele, se volete, ci è spiaciuto solo il “niet” inflessibile posto dagli Organizzatori alla presenza di Lance Armstrong, massimo peccatore per doping nella storia, al via da Gerusalemme. Un Giro ecumenico che ha disperso, banalmente, e certo Mauro Vegni se ne sarà reso conto, se non il retorico beau geste, quantomeno la parabola del Figliol Prodigo ed il segno dell’olivo, in una carovana che accetta invece amabilmente direttori sportivi spettabili e commentatori rispettabili, che dalle storie di doping sono stati (per bontà altrui) affrancati.
Ma il primo Giro vinto da un corridore inglese, alla 101a edizione, ha ancora il pregio di un sottile ricordo, che offre il valore di una Operetta morale, diritti di autore ancora a Gino Bartali. Il primo britannico a vincere una frazione del Giro fu Vincent Denson, un luogotenente di Jacques Anquetil nella Ford, nella Napoli - Campobasso del ’66. Denson si impose dopo una lunga fuga con 44” su Antonio Bailetti, che non seppe rispondere al suo ultimo attacco, e con 1’40” su un belga, Andrè Messelis, uscito in ritardo, solitario, da un gruppo rinunciatario, che avrebbe chiuso pigramente ad oltre 11 minuti.
Bene, quel finale in Tv lo rammentiamo bene, commentato proprio, a fianco di Adriano De Zan, da Gino Bartali. E ci tornano vive le sue parole di elogio per quel modesto ma tenace Messelis, ad inseguire solo, solo per arrivare terzo, solo per non rassegnarsi. «Questi sono corridori, guarda che forza, che carattere, a venir via da un gruppo che si è arreso», diceva, o giù di lì, Bartali. Entusiasta, Bartali il pio, di un corridore e di un uomo che onorava il suo mestiere, senza l’obbligo della vittoria. «Questi sono corridori, non le pecore del gruppo, questi sono uomini». Era il Giro 1966, non siamo affatto contemporanei, ma quell’insegnamento di Bartali, a margine di un Giro 2018 nato per tenere viva proprio la sua lezione, ci sembra per il ciclismo di sempre e per l’Italia modesta di oggi di una impeccabile inattesa modernità.