Juraj, l'altro Sagan
di Giulia De Maio

Chi è che non vorrebbe essere Peter Sagan? Se esistesse un annuncio per poter ricoprire il ruolo di fuoriclasse del ci­clismo globale, che per quel che ha già vinto resterà nella storia dello sport, campione con uno stipendio plurimilionario, amato dal pubblico come po­chi altri personaggi sul pianeta risponderemmo tutti presente. Tutti o quasi. Suo fratello Juraj, infatti, non farebbe mai cambio con la vita di Peter, a suo dire troppo complicata.
Juraj, di due anni maggiore del tre vol­te campione del mondo, abbiamo im­pa­rato a conoscerlo in maglia di campione nazionale slovacco mentre macina chilometri e chilometri in testa al gruppo per portare il suo fratellino in trionfo e dopo il traguardo, regolarmente, abbracciarlo emozionato. È la sua ombra, gli guarda sempre le spalle, non solo in corsa. Se Peter è nato per essere una stella, Ju­rai schiva la popolarità e non po­trebbe reggere la fama. Ama il lavoro sporco e contribuire ai successi di chi in famiglia è nato per vincere.
Juraj, che nei lineamenti e nella voce ricorda molto il vicino parente più fa­moso, non è il classico “fratello di” ar­rivato ai vertici per grazia ricevuta. È un ottimo corridore, in tutte la gare nel­le quali Peter ha brillato, Juraj gli ha dato un aiuto fondamentale. E se non fosse stato per lui probabilmente il nu­mero 1 del nostro sport avrebbe fatto altro nella vita...
Meno male che hai scelto di pedalare, così hai fatto venir voglia anche a Peter.
«A conti fatti, è stata la scelta giusta (sorride, ndr). Ho cominciato a 9 anni: un amico di nostra zia, che faceva l’insegnante, ci ha messo in contatto con il nostro primo allenatore. Ho cominciato per caso, in famiglia nessuno aveva mai praticato questo sport. Papà Lu­bomir ci aveva insegnato varie discipline, dallo sci al tennis, ma la bici per noi era solo un gioco. La prima corsa che ho disputato era una cronometro con la mtb a Žilina, la nostra città, arrivai 8° e mi divertii un sacco. Peter allora dava calci al pallone, ma vedendomi volle pro­vare a sua volta. I nostri genitori non avevano tanti soldi, quindi all’inizio abbiamo utilizzato le bici ereditate dai nostri fratelli maggiori, in particolare quella di nostra sorella con la sella abbassata il più possibile. Chi era il più forte all’epoca? Io, ma solo perché ero di due anni più grande e da bambini l’età fa la differenza. Correvamo in ca­tegorie differenti, Peter vinceva regolarmente nella sua».
Quando non pedalavate, come vi divertivate?
«Non avevamo computer né videogiochi, siamo cresciuti giocando all’aria aperta. Alla domenica ci svegliavamo, facevamo colazione e andavamo alle corse. Quando tornavamo pulivamo sempre la bici e la macchina di papà perché nel fuoristrada trovavamo regolarmente fango o polvere. Prima e do­po cena trascorrevamo il nostro tempo sulla strada davanti a casa giocando a nascondino, badminton, hockey e, più grandicelli, con la moto... L’amore per la natura e gli spazi aperti ci è rimasto. Ora, nel poco tempo libero che abbiamo, mi piace concedermi qualche bella camminata, andare con i pattini a rotelle, fare un giretto in centro con la bici a scatto fisso. Mi piace guardare film e leggere. L’ultimo libro che ho letto era in lingua ceca e trattava del comunismo, sono appassionato di storia».
Di strada da quando eravate bambini ne avete percorsa...
«Eh sì, siamo felici di aver fatto della nostra passione il nostro lavoro. Sor­ri­do ripensando alle nostre piccole grandi conquiste negli anni. Ricordo la gioia del primo ciclocomputer che papà poté regalarci. Da piccoli non pensavo che Peter sarebbe diventato un campione della statura che ha raggiunto, era forte in tutti gli sport e su tutti i terreni ma non sapeva ancora a cosa dedicarsi. La mtb lo divertiva di più della strada. Man mano abbiamo scoperto il ciclocross, la pista, la bici a 360°. Da ragazzini ci siamo sempre di­visi tra bici e scuola (entrambi hanno studiato per diventare commercialisti, Juraj era più diligente di Peter, ndr), da junior abbiamo fatto di tutto per diventare corridori professionisti. Davamo una mano nella pizzeria di nostro fratello, ma per il resto ci impegnavamo entrambi al massimo perché nella vita volevamo fare i ciclisti. Da Under 23 o ti metti in mostra e passi o cambi lavoro. Noi siamo venuti in Italia e nel 2010 abbiamo iniziato la nostra avventura nella massima categoria con la Liquigas».
Allora vivevate insieme vicino a Cone­gliano Veneto, ora ognuno ha la sua casa e la sua famiglia.
«Peter vive a Monaco con Katarina e il piccolo Marlon, che purtroppo finora ho visto solo due volte, mentre io dopo un periodo con la residenza a Dubai sono tornato in Slovacchia. Per vivere vicino a lui dovrei chiedere l’aumento (ride, ndr). Battute a parte io sto bene nel mio paese, vicino alla mia famiglia e ai miei amici, nella mia casa con Lu­cia, la mia compagna. Peter tra tutti gli impegni riesce a tornare a casa non più di 25-30 giorni l’anno, in quelle occasioni si riunisce tutta la famiglia: è bellissimo mangiare insieme e parlare di come va la vita. I nostri genitori oramai sono in pensione (la pizzeria di famiglia è stata venduta due anni fa, ndr), papà ci segue alle corse. È il nostro pri­mo tifoso, non si è perso neanche una classica in ammiraglia, mentre mamma Helena preferisce guardarci in tv. Lei è contenta quando tagliamo il traguardo tutti interi, senza incappare nelle cadute. Nostro fratello Milan ha una nuova attività di noleggio camper e nostra so­rella Daniela fa la parrucchiera. Tra noi siamo molto legati».
Com’è essere il fratello di Peter Sagan?
«Spesso mi chiedono se vorrei fare a cambio con la sua vita, la mia risposta è un secco no. La sua vita è molto difficile, non lo invidio per niente e non sono geloso. Io sono felice con la mia e sono orgoglioso di essere al suo fianco, in corsa e non solo. Abbiamo un bellissimo rapporto, siamo molto connessi, in gara ci capita di parlare, ma non troppo visto che io devo lavorare nella prima parte di gara. All’ultima Milano-Sanremo dopo 30 km dal via stavamo chiacchierando quando dalla radiolina mi hanno detto di portarmi in testa al gruppo a tirare così l’ho salutato dicendogli: “ci vediamo dopo”. Per capirci non abbiamo bisogno delle parole, ba­sta uno sguardo. Ogni tanto in gruppo ci troviamo senza cercarci, è divertente».
Cosa provi quando vince?
«Soddisfazione. Sono felice di contribuire ai suoi grandi successi, ai mondiali con la Nazionale come nelle gare in maglia Bora Hansgrohe. In strada non vince sempre il più forte, quando arriva la vittoria è molto bello. Io per natura do sempre il cento per cento, come Peter, e anche quando non riusciamo a ottenere il risultato pieno, se non abbiamo rimpianti sono contento. Delle critiche che ogni tanto riceve non mi curo, c’è a chi Peter piace e a chi no, è normale. Il momento più duro che abbiamo vissuto nello sport è stato l’anno scorso quando è stato squalificato dal Tour de France, è stato rispedito a casa ed era senza colpe. È stata una brutta vicenda, ma ormai è alle spalle».
La tua gara dei sogni?
«Ho avuto la fortuna di disputarle qua­si tutte. Le classiche sono corse speciali. Dopo la Roubaix, la squadra ha or­ganizzato una bella festa al Mercure Hotel. Aperitivo, cena e open bar. Io però ero così “finito” che a mezzanotte ho salutato tutti e sono filato a letto. Per quanto riguarda le corse a tappe, ho un debole per il Tour of California. L’anno scorso sono stato contento di debuttare alla Grande Boucle, spero presto di potermi mettere alla prova an­che al Giro d’Italia. Ogni vittoria ot­tenuta tra i professionisti è unica: tra le imprese di Peter quella che ho più nel cuore è il terzo titolo mondiale, quello ottenuto l’anno scorso a Bergen».
Vi allenate insieme?
«Soprattutto in occasione dei ritiri, quan­do vado a trovarlo a Monaco o quando siamo in Slovacchia. Nel no­stro paese è lo sportivo più famoso in attività, uscire in bici non è semplice per lui, le persone sono davvero matte. Sentire la gente urlare “Sagan” è bello, ma spesso i tifosi non capiscono che serve un certo equilibrio nell’irrompere nella vita di un personaggio pubblico. Quando ci alleniamo prima del Tour de France sulle strade vicino casa, la gente in macchina si ferma spessissimo per chiedergli un autografo. Lui accontenta tutti senza smettere di pedalare, ma così è difficile preparare un grande ap­puntamento».
In cosa vi assomigliate?
«Entrambi amiamo lo sport a tutto ton­do e vogliamo sempre fare del nostro meglio. Siamo dei perfezionisti e non abbiamo pazienza. Quando vogliamo una cosa, ci impegniamo al cento per cento per ottenerla il prima possibile. A parte questo, abbiamo caratteri di­versi, lui è più divertente, anche agli oc­chi della gente, è nato per stare al centro dell’attenzione, mentre io sono quello che gli guarda le spalle. Non mi piacerebbe essere famoso, uso pochissimo i social, non amo apparire. Mi basta svolgere il mio lavoro al meglio per far contenta la squadra».
In cosa sei più bravo tu?
«Nelle faccende domestiche. Quando abitavamo nella stessa casa cucinavo e pulivo più spesso io, lui diciamo che doveva essere spronato (sorride, ndr). Tante volte mi sono incavolato perché non caricava la lavastoviglie o non sistemava le sue cose, ma era giovane, negli anni è cresciuto e migliorato. An­che per quanto riguarda questioni più serie, da alcuni errori ha imparato ed è maturato parecchio».
In bici ti batte.
«Anche nello sci di fondo e, in generale, in tutti gli sport. Lui ha un limite diverso rispetto a me (e al resto dell’umanità). Non so se è adrenalina o cos’altro, ma è sempre stato quello “davanti a tutti”, essere competitivo e vincente è nella sua indole. Meno male che sono più scarso, se fossi stato co­me lui ci saremmo fatti del male (ride, ndr)».
La sua arma vincente?
«La testa. Non spreca energie con i se o con i ma, pensando a cosa poteva fare meglio, non piange sul latte versato e si impegna sempre al massimo. Questo atteggiamento io ci ho messo anni ad impararlo. Ricordo come nei tre anni in Liquigas io scalpitavo perché volevo sempre fare di più, grazie a lui poi ho capito che, ogni tanto, meno è meglio. Come di dice, less is more».
Litigate mai?
«Ogni tanto, come è normale tra fratelli e tra amici. Discutiamo su tutto, pri­ma mi ascoltava di più perché sono uno dei suoi fratelli maggiori, ma come ho detto in questi anni è cresciuto tan­to e ora è “avanti” a noi. Ha una vita importante, tante responsabilità e ha imparato a gestirle. In più ha la sua nuova famiglia e quando abbiamo del tempo libero insieme cerchiamo di sfruttarlo al meglio».
È capitato che uno “coprisse” l’altro?
«Ci spalleggiamo a vicenda, fin da quan­do eravamo piccoli. Ricordo quando si era fissato che voleva fare Downhill ma i nostri genitori non ne volevano sentire neanche parlare. Riu­scimmo a portare papà a una gara di DH ma non fu una buona idea, il suo verdetto fu: “Peter, puoi praticare qualsiasi sport al mondo tranne questo”. Trascorse una decina di giorni senza toccare la bici, poi capì che poteva es­sere forte anche su strada e in mtb così riprese ad allenarsi».
Lo scherzo più divertente che uno ha fatto all’altro?
«Beh, ce ne sarebbero così tanti che non so quale raccontarvi. Scherziamo spesso, tempo fa lo prendevo in giro per i capelli lunghi finché non si è rasato a zero, naturalmente da so­lo».
L’avventura più pazza che avete condiviso?
«Non si può dire (ride, ndr). Quando sei giovane se ne fanno di stupidate, non pensi alle conseguenze... Insieme abbiamo girato il mondo, abbiamo fat­to vacanze in Australia, Tailandia, Cam­bogia. Siamo sempre così impegnati, soprattutto lui, che per noi è va­canza quando stiamo insieme, come quando andiamo in ritiro in altura pri­ma del California».
Cosa gli auguri per il futuro?
«Salute, salute, salute. In questo sport ci sono mille variabili e pericoli, uno sbaglio, una caduta e cambia tutto. La vita è imprevedibile».
E per il tuo futuro cosa speri?
«Lo stesso. Voglio essere felice e sereno. Vivo giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anno dopo anno. E gli anni passano veloci».
Potreste mai correre uno contro l’altro?
«Ora come ora la vedo difficile, siamo fortunati a poter far parte dello stesso team e abituati così, abbiamo sempre corso insieme, fin dalle prime gare. L’unico scenario che posso immaginare in cui potremmo essere divisi è che un giorno Peter smetta, e io continui sen­za di lui».
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