Bastianelli, la mamma che sa volare
di Giulia De Maio

Marta Bastianelli è tra le in­discusse protagoniste del­la stagione in corso. La ro­ma­na delle Fiamme Az­zur­re, campionessa del mondo a Stoc­carda 2007, nei primi mesi dell’anno ha già alzato le braccia al cielo cinque volte, con un paio di perle nelle ambitissime classiche del Nord.
Ha fatto sue Gand-Wevelgem e Freccia del Brabante, dopo aver centrato Gp Dottignies, una tappa alla Vuelta Va­lenciana e il trofeo Oro in Euro in To­scana. La velocista della Alé Cipollini a 30 anni sta vivendo una seconda giovinezza.
Era una ragazzina quando vesti l’iride e toccò il tetto del mondo. Lo era an­che quando un anno più tardi dalle stelle cadde nelle stalle per colpa di un diuretico non contemplato nella lista dei prodotti dopanti, una “negligenza” sentenziata dai tribunali che le costò due anni di squalifica.
Sembra passata una vita. Oggi è una don­na matura e serena, che ha cambiato vita e città, con la fede al dito e una bimba di quattro anni ad aspettarla a casa, continua a girare il mondo per di­mostrare di essere la più veloce.
Quanto sei diversa da quella ventenne in ma­glia iridata?
«Tanto, di testa mi piaccio più adesso. Dal 2007 non sono cambiate la determinazione e la forza di volontà che mi contraddistinguono, ma sono cresciuta parecchio. La maglia iridata ha coronato i risultati della mia giovinezza, dopo però ho vissuto un periodo davvero dif­ficile. A 20 anni non è facile reggere certe pressioni, una vicenda come quella che ho vissuto io ti scombussola e ti può far perdere la rotta. Quando sento che ci sono ragazzi che si tolgono la vi­ta per i motivi più disparati, penso di essere stata tanto forte e ringrazio di aver avuto una famiglia solida alle spalle. Oggi sono un’atleta più matura, me ne frego delle voci, non mi faccio condizionare da consigli sbagliati, sono più consapevole. Ho trovato il mio equilibrio: se un giorno piove e non pos­so allenarmi non è un dramma. Non ho più quelle “fisse” che si hanno da giovani, ho una maturità che mi permette di vivere più serena».
Da quattro anni hai un tifosa in più.
«Sì, Clarissa. Non è semplice svolgere questo lavoro con una bimba piccola, se riesco a conciliare tutto è grazie alla famiglia. Avere al mio fianco un marito (Roberto De Patre, cinque anni da pro­fessionista, oggi attivo nell’azienda di famiglia, la Ferrometal, che si occupa di smaltimento di metalli, ndr) che ha un passato da corridore è fondamentale perché capisce le tempistiche di questo mestiere e i sacrifici che dobbiamo affrontare. Da quando ci siamo sposati mi sono trasferita da Lariano, nei Castelli Romani, a Guardia Vo­ma­no, in Abruzzo. Devo ringraziare tanto la famiglia di Roberto. Ho una suocera giovane che ancora lavora e si organizza i turni in base alle mie gare per po­termi tenere la bimba. I risultati aiutano, danno morale e forza, ripagano i sacrifici condivisi con le persone che amo».
Dalla maternità sei ritornata più forte di prima.
«In realtà volevo mollare, non era facile ripartire ancora una volta, ma i re­sponsabili del Gruppo Sportivo Fiam­me Azzurre mi hanno chiesto di pensarci e mi hanno dato il tem­po di cui avevo bisogno. Mi sono convinta che, lasciando, la mia sa­rebbe rimasta una storia in sospeso. Non potevo rinunciare alla bici: il mio modo di stare al mondo, di esprimermi e di so­gnare. La mia carriera era stata generosa e, forse, anche un po’ precipitosa, ma c’erano ancora altri traguardi da conquistare».
Come concili vita privata e lavoro?
«Guarda oggi, per farti un esempio, sono tornata alle 13 dagli allenamenti, alle 15 sono andata a prendere mia figlia all’asilo e ora siamo al maneggio, mentre lei si sta godendo la sua lezione di equitazione (ama i cavalli), io sono al telefono con te. Un’altra ciclista del mio li­vel­lo invece sarebbe a casa con le gambe alte o a fare i massaggi. Penso che tutto sia basato sulla voglia di fare, io ho una vita molto frenetica, ma non mi pesa. Ferma non so stare. Ogni tan­to penso che se facessi l’atleta al cento per cento, se avessi più tempo per riposarmi, probabilmente andrei più forte, ma ho una bimba e una casa a cui ba­dare, mica ho la servitù (sorride, ndr). Come dice Roberto, devo godermi le trasferte alle gare, in quei momenti è come se fossi in vacanza. Battute a par­te, stare lontano da casa pesa tanto, soprattutto ora che Clarissa capisce il passare del tempo e mi dice “mamma, stai sempre in giro”. Quando posso la porto con me alle corse».
Sei l’unica mamma italiana professionista in bicicletta.
«Nel gruppo mondiale però non sono la sola, ce ne sono almeno altre due, e sono felice che Lizzie Armistead sia in dolce attesa. Durante la gravidanza io ho messo su nove chili, smaltiti in poco tempo. Il resto è solo forza, disciplina, volontà. Se ripenso ai tanti sacrifici che hanno affrontato i miei genitori, mam­ma Mirella e papà Roberto, quando ero piccola io, trovo la forza di accompagnare mia figlia a praticare sport a sua volta, anche quando sono stanca e vorrei solo buttarmi sul divano. Io ho iniziato ad andare in bici a 10 anni grazie ai miei zii. Mi allenavo con tanti altri bimbi in un anello di un chilometro disegnato nel bosco vicino casa da­gli appassionati della zona, compreso mio papà. Dopo aver pedalato ci divertivamo facendo delle scampagnate lì vicino. Da piccola correvo sempre con i maschietti, la prima gara che disputai solo con le femmine da allieva in To­sca­na la vinsi con 3’ di distacco sulle altre, ma non alzai neanche le mani. Ero abituata a correre con i maschi, mi sembrò fin troppo facile».
Servirebbero maggiori tutele per lo sport al femminile?
«Certo, ma stiamo facendo passi da gigante. Affinché gli sponsor credano nel movimento ci serve più visibilità. Alla Gand il pubblico belga è stato “costretto” a vedere la gara femminile perché è stata trasmessa durante quella maschile e gli organizzatori mi hanno detto che abbiamo raggiunto uno share altissimo. In Italia facciamo fatica, an­che per il Giro Rosa le tv ci dedicano pochi mi­nuti. Più che impegnarci al massimo, vincere e promuovere al meglio la nostra immagine, noi atlete cosa possiamo fare? Sono le autorità a doversi muovere e a cambiare le cose. La differenza di premi tra uomini e don­ne è imbarazzante, lo dico per le giovani. Alla Gand noi della Alè Ci­pol­li­ni abbiamo portato a casa 1.000 euro da dividerci in 6 e una parte giustamente va al personale. Spero i nostri rappresentanti riescano a fare crescere ul­teriormente il movimento rosa, che ne­gli anni è migliorato tantissimo».
Il Giro, per certi versi, è stato la svolta di questa tua seconda parte di carriera.
«Lo scorso anno pensavo di smettere, ero stanca. Quando le cose non vanno, la cosa più semplice è mollare. Mi dicevo: sportivamente parlando sono abbastanza vecchia, ho un lavoro sicuro, chi me lo fa fare di continuare? Ho imparato però che è nei momenti più bui che bisogna insistere, sarebbe stato un peccato se avessi lasciato. Appena ho vinto la mia prima tappa al Giro Rosa, sul traguardo di Polla, mio marito mi ha telefonato e mi ha chiesto: “Ora che fai?”. Lì ho deciso, insieme a lui, di continuare. Devo ringraziare anche la mia squadra, Alessia Piccolo in particolare, che mi dà fiducia e mi sostiene al meglio. Da quando sono mamma alle gare non posso perdere tempo. Es­sere l’unica azzurra ad alzare le braccia al cielo nell’edizione scorsa della corsa rosa è stato un orgoglio. Quest’anno vorrei confermarmi vincendo un’altra tappa».
Cos’altro chiedi a questa stagione?
«Oltre a far bene alla corsa rosa, vorrei essere protagonista al Campionato Eu­ropeo di Glasgow ad agosto. Se sarò convocata, è chiaro. Per il mondiale sono realistica, per me è troppo duro, potrei aiutare le compagne solo nella prima parte. Mi immagino in sella an­cora per qualche anno. La corsa dei so­gni, quella che mi manca, è l’Olim­pia­de. Quella di Pechino nel 2008 era svanita a cinque giorni dalla partenza, quando la valigia era già pronta. Quella di Londra nel 2012 era irraggiungibile. Una volta tornata, c’era quella di Rio in cui sperare. Una sfida con me stessa. Con tenacia e, soprattutto, con umiltà. In punta di piedi. Quella di Tokio 2020 non è così lontana, ma non si sa ancora come sarà il percorso. Vedremo... Vor­rei smettere da vincente».
E poi cosa farai?
«Di sicuro un altro bimbo, che è la co­sa più bella del mondo, la vittoria che auguro a tutte le cicliste. Andrò a lavorare come agente penitenziario al carcere di Teramo e ne sarò or­gogliosa. Da bambina sognavo di svolgere un lavoro in divisa, mi sono ritrovata a farlo e ne sono felice. Starò in famiglia, mi godrò delle belle passeggiate a Ro­seto degli Abruzzi, fra Adriatico e Gran Sasso, trascorrerò il tempo con belle persone. Sarò felice con una vita più tranquilla».
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