RENE' KOPPERT, L'ITALIA, IL TOUR...
di Gian Paolo Porreca
E a noi che non tenevamo mica il coraggio - al netto degli altri Paolo, e degli altri Pier, pure titolari e habitueès di questo rotocalco - di illuderci che il primo Tour de France della storia a partire dall’Italia, fosse presuntuosamente un cadeau per il nostro onomastico, il 29 giugno...
E a noi che altresì temevamo improprio dedicare a modo nostro il bienvenue ad un siffatto evento, il Tour de France da Firenze, per onorare un gotha di vincitori italici, da Bottecchia Bartali Coppi a Gimondi Pantani Nibali, con al centro di gravità però permanente il successo nel 1960 di Gastone Nencini, quel 1960, il crocicchio della vita e dello sport pure, dalla morte di Coppi alle Olimpiadi di Roma, dalla Rai alla Tv, dal cono gelato alla Coppa Olimpia: e in noi dall’infanzia prima alla seconda infanzia.
E a noi, che procediamo a stento in un volgere giornalistico di acronimi da PNRR a PIL e pagine buone solo per chi ha la carta di credito attiva - più carte di credito, meglio - al posto del cuore, o dove nel torace risiede a sinistra quell' organo di siffatto nome metaforicamente depositario del più nobile ed inevitabile dei sentimenti.
E a noi che non avevamo più il coraggio di provare a raccontare, per una Italia diventata ormai municipale o regionale, cosa fosse invece stato universalmente il Tour de France, in un piccolo atomo del mondo, a Carano di Sessa Aurunca, comune di Caserta, Campania lontana da Napoli, fra il Volturno e il Garigliano e un mare che era più Bandiera blu negli anni ’60 di quanto lo sia enfatizzato oggi, gli Aurunca Litora...
Cosa mai fosse stato imperituramente per l’immensità sentimentale senza fondo che è l' infanzia, nel 1960, il Tour de France per un bambino di 10 anni: di nome Paolo.
E a noi che la distanza dalle cose si misura impietosa in anni, non in chilometri.
E a noi, che pativamo il diniego di un “capo”, o pure di una figlia infastidita della nostra querimonia per il passato inverecondo, a noi mancava un interlocutore, per ingaggiare insieme a lui un virtuale Trofeo Baracchi, alla ricerca del tempo perduto da ritrovare proustianamente, ci mancava e ci voleva per benedizione nel giugno 2024 solo un finisseur olandese illuso dei primi anni ’80...
Uno come Renè Koppert, e la sua illuminazione pubblica, lui e il progetto di un Giro d’Italia in sedicesimi da disputare, per beneficenza, a s’Hertogenbosch, territorio del Brabante, così bene raccontato nei giorni scorsi sul sito da Paolo Broggi... Simulando nel percorso di un centinaio di chilometri, fra paesini e borghi del suo mondo distante dal Mediterraneo, giusto la piantina geografica della nostra penisola: ma che idea, che dolcezza straordinaria.
E grazie allora a Renè Koppert, quel biondo passista inquieto, da toccata e fuga, che nella TI - Raleigh del 1982 di Peter Post - ma quanto ci manca in vita l’eternità di Post, altro che Maradona - e seppe vincere il cronoprologo al Romandia per poi fuggirsene la sera a ruota di una miss, optime... Ma che nel Giro del 1983, rinsavito o meno, nella Termolan di Bruno Reverberi si sarebbe infine invaghito per la vita buona e giusta di una ragazza italiana, con cui mettere su una esemplare famiglia. Ed ovviamente dell’Italia oltremodo invaghito, da recitarla a memoria.
E grazie allora a Koppert, di questo suo Giro d’Italia in miniatura trasposto nei Paesi Bassi, torniamo noi oggi incredibilmente a sentirci in diritto di raccontare ancora in parallelo del Tour de France del ’60 che a 10 anni, quel Tour per nazionali e formazioni miste, e le squadre regionali francesi - Ovest, Sud Ovest, Midi, Centro Nord, Lega e borbonici nostrani altrove -, fra Rostollan e Retvig, Adrianssens e Junkermann, Battistini e Mastrotto, Massignan e Rohrbach, vinto favolosamente da Gastone Nencini, quel Tour che mi vedeva al via da solo. Fra i sentieri ed i rovi di una campagna, Conca d’Oro, a Carano di Sessa Aurunca, immaginando fra i cespugli o le pietre angolari delle masserie Clermont Ferrand e Pau, Saint Malo e Lorient, facendo a voce la cronaca di una corsa mai vista e dei suoi arrivi, se non su Lo Sport Illustrato della settimana dopo, a gara già finita. Giri su giri sull’aia dei coloni, su una Bianchi da bambino, telaio numero 18 con il manubrio da corsa, e pure il cambio, roba da Tour sul serio, unico regalo di una estate in villeggiatura.
E noi che eravamo rassegnati al peggio, grazie alla suggestione di Renè Koppert, W l’Olanda, ci sentiamo nuovamente abilitati oggi a rivisitare una più remota fantasia, con la sua stessa devozione. Il ciclismo, per amore, è un destino.
E non vi chiederemo più scusa, se non parliamo del vostro secolo in auge, ciclismo o meno, noi che scivolando sui rovi di un ponte in legno pensavamo allora a luglio 1960 di esserci fatti male come Roger Rivierè nella discesa del Perjuret, inseguendo follemente Gastone Nencini in fuga e in giallo, in quel Tour. Solo le nostre abrasioni di allora, del dolore della vita e della gioia di un Tour come quello di allora, come della nostra estraneità ai giorni venturi, sarebbero così bene guarite.