L'unico sport che si diverte
di Gian Paolo Ormezzano
La teleabbuffata olimpica alla quale chi scrive ha regolarmente adempiuto, come da precetto giornalistico ma soprattutto sportivo di una vita tutta, è servita, sempre allo stesso povero bipede implume, per una constatazione magari personalissimissima dunque di nessuna valenza assoluta, magari divertente dunque - se partecipata - di importanza relativa non trascurabile (di questi tempi, poi). Ho notato, annotato ed apprezzato, dal mio punto di vista si capisce, che i ciclisti nell’espletamento del loro lavoro dunque della loro fatica si divertono comunque, mentre gli altri di altri sport soffrono. Attenzione: non parlo di acido miolattico ergo di tossine nei muscoli, ché di queste cosacce i ciclisti hanno e patiscono in abbondanza, parlo di espletamento complessivo, in gara, del duro splendido compito che si sono scelti.
Da Tokyo ho davvero avuto immagini in superabbondanza non dico no di dolenzia psicofisica particolare, tipo quello della canoa che mentre si diverte a scendere a valle portato dalla corrente - in un esercizio che quasi quasi gli invidiamo, immaginandoci fra quelle chiare fresche dolci acque, sognandocelo per una vacanza -, manca una porta, cerca di rimediare con fatica immane, si infuria come una belva con il fato, se stesso, gli organizzatori eccetera eccetera. Dico proprio di una tristezza spalmata su tutto e tutti, salvo si capisce il troppo facile di chi arriva primo. Essì, il secondo posto troppo spesso nello sport - ciclismo compreso - vale l’ultimo, se non peggio perché induce ad esercizi di pentimento, ripensamento, rimorso, arrabbiatura, persino invidia (orribile), oppure perché porta ad una allegria troppo recitata, come quella di genesi statistica per l’argento della staffetta 4x100 stile libero dei nostri nuotatori: mai prima un simile piazzamento di squadra, ma assai meglio l’oro, e poi cosa resta al singolo?
Tutti tesi e tristanzuoli. Quello dell’atletica specialmente (ma tutti un po’) che dopo l’arrivo, il salto, il lancio sembra sembra colto da raptus isterico, a meno che stramazzi moribondo e si dia ad altra recitazione comunque non allegra. Il nuotatore che per far vedere bene che sorridicchia deve togliersi cuffia ed occhialini e sprizzarsi d’acqua battesimale, il sollevatore di pesi che arranca a lungo fra le sue flatulenze, la judoka che si sente mascolinizzata proprio dal successo su una che, sconfitta, appare subito più femminea di lei, quelli della scherma che comunque vada devono imprecare e gettar via il l casco ingabbiante. E ancora il cestista, il pallavolista, il pallanuotista, il tennista che devono recitare lo sketch comico dell’abbraccio con i battuti (e diciamo dei vittoriosi, si pensi agli sconfitti…). Il pugile obbligato al rituale del saltello con abbraccio a colui che ti ha pestato e che hai ricambiato.
Tristezza generica continua in gara, tristezza specifica, magari difficile da rintracciare ma sicuramente esistente in qualche forma anche strana a gara conclusa. E infatti di solito ne escono interviste da ebeti, come impegnate a essere artificialmente ridicole, banali.
IIl ciclista no, il ciclista fa sempre il suo lavoro, non si arrabbia neanche in salita fra gli imbecilli che lo serrano pericolosamente rischiando di farlo cadere, mica può arrabbiarsi dopo l’arrivo quando deve comunque slalomare per evitare amici e no. E in corsa spesso, molto spesso ride, scherza, scambia bevande e cibi, fa smorfie gaie alle telecamere, sorride alla gente, scambia pacche sulle spalle con i compagni, esegue gentili pudiche minzioni. Non diciamo di più, invitiamo a guardare le immagini e pensarci su. Suggeriamo comunque l’arrivo olimpico (Giochi di Barcellona 1992) di un’estate lontana, vinse un azzurrro, Fabio Casartelli, aveva ventidue anni, sarebbe morto tre anni dopo al Tour, una caduta. Dietro di lui, battutissimi allo sprint, un lettone e un olandese, questi (Dekker) vistosamente felice che abbia vinto il migliore, ha le braccia alzate a dire di una sua nobile gioia sportiva. Quale altro sport si permette questo, offre questo?
E personalmente ricordo un mio Tour anni Sessanta, la sosta del gruppone a Colombey-les Deux Eglises, posto di vacanza del generale De Gaulle padre padrone di Francia il quale usciva dalla sua fattoria e benediceva il mondo giallo che si era fermato lì davanti. Bon voyage mes enfants, merci mon général. La corsa ripartiva, i ciclisti avevano approfittato dello stop per fare comodamente pipì, era nato davanti a casa De Gaulle un bel lago con riflessi iridati. Quale altro sport si diverte e diverte così?