di Giulia De Maio
Ci sono spettatori ad applaudire, 10mila ammessi dalla Prefettura di Shizuoka che, a differenza di Tokyo, non è alle prese con lo stato di emergenza sanitaria, e c’è un’umidità che si taglia con il coltello, ai piedi del monte sacro abituato ad osservare la Formula Uno. Nel circuito del Fuji prestato all’Olimpiade invece arrivano i ciclisti dopo 234 chilometri e 4.865 metri di dislivello. Allo Speedway ci sono famiglie a fare picnic con i noodles, spaghetti cinesi fritti, bambini che divorano granite dai colori bizzarri, blu grande puffo o rosa barbie, un paio di acrobati a piroettare nel parcheggio, la fila per i souvenir è lunga malgrado l’afa e non mancano le docce spray per rinfrescarsi. Tutta questa varia umanità sta per assistere a un evento storico.
L’Ecuador non è più un Paese lontano del mondo, una di quelle nazionali di frontiera che solo dieci anni fa animavano i primi chilometri di mondiali e sfide olimpiche prima di scomparire. Oggi no, è lassù, sul gradino più alto del podio, con tanto di bandiera e inno nazionale grazie a Richard Carapaz. Nato a tremila metri di quota, sa volare in bici. È di El Carmelo, la sua “parroquia”, l’area rurale in cui è cresciuto.
«Li ho i miei affetti, la mia gente, la mia prima bicicletta». Guai a chi gliela tocca, anche se era scassata già 20 anni fa. Il presidente delle Repubblica, Lenin Moreno, la vorrebbe da esporre in un museo, ma quello è un bene troppo prezioso. Vi ha mosso le prime pedalate colui che ha regalato al paese andino il secondo oro olimpico della sua storia.
Richard Carapaz entra nella leggenda come Jefferson Perez che seppe vincere la 20 km ad Atlanta ’96 diventando a soli 22 anni il più giovane vincitore olimpico della specialità. Dopo due quarti posti a Sydney 2000 e Atene 2004 il marciatore regalò al suo Paese anche l’argento a Pechino 2008.
Fino a Tokyo2020 erano le uniche due medaglie dell’Ecuador che ha esordito ai Giochi estivi nel 1924 con tre rappresentanti nell’atletica e a quelli invernali solo nel 2018.
Primo al Giro 2019, secondo alla Vuelta di Spagna 2020 e terzo al Tour de France concluso la domenica precedente, a Tokyo la locomotora del Carchi non ha atteso il logoramento tattico dei rivali, il belga Wout van Aert e lo sloveno Tadej Pogacar, due Tour vinti a 23 anni. Il 28enne ecuadoriano scatta a 25 chilometri dal traguardo con lo statunitense Brandon McNulty dopo che la corsa era esplosa sul Mikuni Pass, quando gli scatti di Damiano Caruso, Vincenzo Nibali e Giulio Ciccone avevano mandato in crisi mezzo gruppo. A 5.8 chilometri dalla fine Richie aumenta ulteriormente il passo e resta da solo. Mentre i crampi alla gamba sinistra di Alberto Bettiol fanno crollare ogni minima speranza degli azzurri, il sudamericano che nel 2019 aveva incantato il Giro d’Italia con la sua storia di campesino che aveva cominciato a pedalare su una bici assemblata dal padre con i pezzi raccolti nella discarica di Tulcan prende il largo.
Es un dia historico titola all’unisono la stampa online dell’Ecuador mentre Carapaz sale sul podio con le lacrime agli occhi.
«È qualcosa di immensamente grande per me» mormora con modestia. Non era l’unico ecuadoriano al via, ma Jonathan Narvaez, arrivato a oltre 10’ e mai di fatto in gara, non ha potuto aiutarlo chissà quanto. Da Quito, la capitale, e dal Tulcàn, città capoluogo del Carchi è scoppiata letteralmente la “carapazzia”.
«Sono felice e quasi incredulo di quello che ho saputo fare e sono entusiasta di quello che sta provando la mia gente. Sono salito su podi importanti, ma non c’è paragone: questa è la cosa migliore che poteva capitarmi nella vita. Si è trattato di una gara pazza, dura, io ho semplicemente aspettato il mio momento. Sensazionale, incredibile» ha raccontato dopo l’impresa olimpica uno degli assi della Ineos Grenadiers, con cui è sotto contratto fino al 2022.
Alle sue spalle chiude l’enorme Wout Van Aert, che al photofinish ha la meglio sull’inesauribile Tadej Pogacar che completa un podio di altissimo livello, da cui purtroppo gli azzurri arrivano lontano: Bettiol 14° è il migliore dei nostri. L’astinenza da successo italiano a Parigi 2024 diventerà ventennale: non vinciamo un oro olimpico da Atene 2004 con Paolo Bettini.
Richard Carapaz è uno scalatore puro, capace di tirare anche lunghi rapporti, ma soprattutto è marito, papà e uomo sensibile. Nell’orribile primavera del 2020, le immagini dell’Ecuador sconvolto dalla pandemia fecero il giro del mondo e il suo eroe sportivo non è rimasto con le mani in mano, ma ha offerto aiuti alimentari a chi nel suo villaggio era rimasto senza lavoro.
«I miei connazionali saranno impazziti, ormai il ciclismo da noi è il primo sport nazionale. E se ho potuto regalare loro un po’ di leggerezza in questa epoca così difficile e tormentata beh, ne sono felice. Orgoglioso».
Lo scorso 25 dicembre ha distribuito regali ai bimbi della sua provincia, travestito da Babbo Natale. E con un messaggio tenero e spiritoso aveva fatto ridere tutti: «Quest’anno Babbo Natale guiderà una locomotiva (il suo soprannome, ndr), non una slitta».
Richie è nato a Tulcàn, capitale della provincia del Carchi, terra di acque termali e arte topiaria, vale a dire del potare gli alberi o arbusti al fine di dare loro una forma geometrica. Dal suo piccolo borgo Julio Andrate, sito a 3.000 metri, per fare carriera attraverso il ciclismo è dovuto migrare in Colombia. È un corridore di frontiera, che proviene da una terra che vive di agricoltura: campi e bestiame. Il nuovo campione olimpico ha alle spalle una famiglia semplice e contadina: braccianti. C’è anche un po’ di Italia nella storia di questo ragazzo scopertosi campione: al suo fianco ha un agente italiano, Giuseppe Acquadro, 54 anni, piemontese di Biella, specializzato in talenti sudamericani (tra gli altri Quintana, Bernal e Chaves). Ha scoperto Carapaz nel 2015 e ora si gode il momento, che sarà eterno, quanto la gloria olimpica.