Poi non dite che non vi avevo avvertito
di Gian Paolo Ormezzano
Quando ero uno smanioso giornalista di ciclismo e scrivevo del villaggio esclusivo e dominante italo-franco-belga, con accesso rado di pedalatori spagnoli, svizzeri, olandesi, tedeschi e inglesi, cercavo di farmi conoscere con l’originalità (a tutti i costi ma - ci tengo a dirlo - non a basso prezzo), e allora, dicendomi originario come atleta dal nuoto e tifoso come giornalista dell’atletica, scrivevo che quando si fossero messi sulle biciclette certi atletoni delle piscine e degli stadi, magari californiani tipo sequoia, magari neri tipo baobab ma con agili liane, il villaggio sarebbe stato spazzato via. E cercavo di far capire che la supremazia diciamo europea nel ciclismo era frutto di disattenzione altrui persino più che di attenzione nostra. E facevo notare come proprio la mancanza di atletissimi veri premiava, nel ciclismo, i fisici poveri, sgraziati, contadineschi, i piccolotti da scalate con bava alla bocca, gli scorfani brutti che in sella apparivano belli, Fausto Coppi su tutti e per conto di tutti.
Venivo preso per pazzo iconoclasta, per giornalista velleitario e maniaco dell’originalità anche blasfema, e venivo ammonito: il ciclismo - mi si faceva notare - è sport di fatica, di sofferenza, roba da poveri duri contadini (per questo in Belgio i fiamminghi rudi lavoratori dei campi sono più forti ciclisti dei valloni che sofisticatelli parlano e pensano in aristocratico francese). Gli statunitensi hanno dominato la pista modello circense agli inizi del Novecento, dominato sin troppo, era soprattutto un barnum, si affermavano - udite udite - persino i neri, ma è durato poco, la strada è altra cosa. E lascia perdere, mi dicevano, i tuoi neri, sono di natura pigri e incapaci di concentrarsi, guarda il calcio, i neri portieri bravi sono rarissimi… Cose adesso da fucilazione, stando al politically correct per me scemo, se esasperato e radicaleggianti, come l’uncorrect.
Poi sono arrivati sulle scene del rude ciclismo stradaiolo europeo gli americani nel senso ampio di statunitensi, canadesi, colombiani soprattutto, equadoregni, e dalla stessa Europa sono arrivati i russi gli slovacchi, gli sloveni quattro gatti ma che gatti. E gli inglesi hanno preso a dominare il Tour de France, gli statunitensi hanno colpito al Giro, e lo scriviamo lasciando da parte Armstrong, made in Usa ma reo alla francese di doping. Pochi anni e il diorama scenico è tutto cambiato. E io sono diventato vecchio e non mi va di fare il bello ricordando certe cose elementari: tipo che il ciclismo era quasi tutto italo-franco-belga per la semplice ragione che al resto del mondo per ragioni assortite ne fregava poco o niente di praticarlo a fondo. Intendiamoci: mica qui si si bestemmia Coppi, che resterebbe Campionissimo anche nel ciclismo dell’universo tutto impegnato, semplicemente si dimensiona una errata supponenza.
Una segnalazione speciale voglio farla. Si parla di neri in bici (a proposito, scrissi che i neri delle Americhe tutte non eccellevano nel grande nuoto agonistico non per ragioni fisiche o mentali, ma perché non avevano accesso alle piscine: e con certe aperture antirazziste sono arrivati quasi ai vertici anche qui...). Ora mi voglio togliere una soddisfazione e giocare anzi rigiocare al gioco scritto del profeta. Scrivo un nome ed un cognome: Justin Wlliams, 31 anni, nato a Los Angeles in zona sud, la più impestata dalle bande delinquenziali, nero forte, originario del Belize, lo staterello sudamericano dove si parla inglese. È il re dei criterium, gare in circuito per al massimo due ore, tracciati piatti. Si corre (si correva, poi il covid...) per i premi messi in palio specialmente dagli enti locali. Lui è campione nazionale dei criterium, ha vinto tanti altri titoli di specialità ma soprattutto è, con il fratello Cory anche lui ciclista forte, l’anima di un gruppo sportivo, di più, di un ente ciclistico, di più, di un movimento che mette sulle biciclette e segue nelle gare esclusivamente afroamericani e latinoamericani. Insomma quelli che non piacciono a Trump.
Justin Williams ha una sua notorietà che possiamo anche dire di nicchia, ma può e vuole espandersi. In volata è imperiale, imbattibile. Punta anche le classiche corse su strada, punta ai Giochi di Parigi 2024, percorso quasi tutto piatto. Ha provato a gareggiare in Europa, troppi trabocchetti di strada (pavé, salti e buche, spartitraffico, soprattutto troppi accordi, troppa tattica, troppo gregariato a tinte schiavistiche, troppa mafia e e per lui cittadino Usa troppe pesanti memorie di Armstrong). Riproverà, insisterà, ha detto. Io qui dico soltanto che, se a Parigi 2024 o prima, lui o uno come lui, magari prorio uno dei suoi, vince una corsa importante, magari una di quelle a cui diamo del monumento, non potete poi dire che non vi avevo avvertiti.