Noi, eunuchi
di Cristiano Gatti
Il ciclismo cambia, la nuova generazione si è piazzata a capotavola con spensierata sfacciataggine, Bicicletta Italia vive una delle sue epoche più critiche. È il nuovo scenario, ce lo siamo ritrovato praticamente in modo traumatico, nel giro di pochi mesi. Ma non ci è passato sotto al naso nella nostra indifferenza: l’abbiamo notato, l’abbiamo subìto, l’abbiamo accettato. Ormai è talmente recepito che sembra già di ripeterci fino alla noia.
Non è perciò dei nuovi equilibri e della nuova congiuntura che dunque voglio occuparmi. La do per scontata e purtroppo per noi anche consolidata. Resta invece molto fresco e curioso uno degli effetti più eclatanti di questo nuovo mondo: noi italiani - o magari devo parlare solo per me - stiamo imparando a guardare il ciclismo senza tifo.
Solo per ricordare: usciamo da almeno trent’anni in cui ad ogni stagione corrispondeva una passione particolare, per uno o più cavalli della nostra scuderia, magari qualche volta per le corse in linea e altre per i grandi giri, spesso - bei tempi - per entrambi i settori. Dall’epoca di Bugno e Chiappucci, cioè dal 1990, passando per l’epoca Pantani, poi per l’epoca Basso, poi per l’epoca Nibali, ficcandoci dentro ovviamente i Cipollini e i Petacchi, gli Argentin e i Ballerini, i Cunego e i Simoni, ma non vado avanti per non fare l’elenco telefonico, dato che le figurine sono tantissime, da quella volta in altre parole siamo sempre andati alle corse per goderci naturalmente lo spettacolo, ma anche e magari soprattutto per spingere idealmente e appassionatamente un nostro idolo.
Non c’è bisogno che lo spieghi io che cosa significhi guardare una gara tifando per qualcuno, e non solo nel ciclismo. Se guardo un Inter-Juve da tifoso dell’Ascoli non è come la guarda un tifoso della Juve o dell’Inter. Il coinvolto emotivamente ha certi occhi, collegati all’interruttore delle emozioni e dei sentimenti, il distaccato ha altri occhi, collegati semplicemente al gusto e al palato. Tant’è vero che per il tifoso certi ricordi intoccabili sono legati persino a grandi vittorie uscite da brutti spettacoli. E tant’è vero che si arriva addirittura al paradosso di celebrare goliardicamente la sublimazione della vittoria a qualunque costo, in qualunque modo, autogol dell’avversario al 96’ dopo una partita dominata proprio dall’avversario. La migliore.
Diversa, tutta diversa, la visuale dell’osservatore neutrale, estraneo, freddo. Conta solo il teatro, contano solo la trama e gli attori, si pretende il bello e non importa proprio chi lo metta in scena. Facciamoci caso: è esattamente quello che sta capitando a noi italiani da un anno a questa parte. Ci siamo arrivati per gradi, ma adesso ci siamo dentro fino al collo. Guardiamo le grandi corse con l’occhio del critico teatrale, o del giudice di gara, o della sciura affacciata al davanzale. Siamo sereni, distanti, disillusi. A livello di appetiti e di sensi, siamo asessuati. Più o meno, è la posizione degli eunuchi negli harem dell’impero ottomano e del celeste impero cinese: guardare senza partecipare.
Evidentemente c’è sempre una residua e inconscia speranza in fondo alla nostra anima, annidata da qualche parte, perché senza speranza è impossibile campare. Ma è proprio inconscia e campata per aria, con la ragione lo sappiamo bene. Con la ragione sappiamo che in una Liegi o in una Sanremo ormai possiamo al massimo immaginare di ficcarne uno tra i primi dieci, se vanno bene un po’ di cose.
Ma allora, com’è questo nuovo modo, un modo che molti giovani non conoscevano, e che tanti di noi non provavano dalla carestia del dopo Saronni-Moser? Per quanto mi riguarda, è un modo molto diverso e decisamente più tranquillo, con frequenza cardiaca nettamente più regolare, non parliamo degli sbalzi umorali e del grafico emozionale. Da giornalista ho sempre tenuto un rigoroso distacco in sede di giudizio, mai e poi mai ho fatto sedere al computer il mio io tifoso, ma davanti alla corsa quello stesso io è sempre rimasto lì, al mio fianco, presenza fondamentale per dare sapore allo spettacolo. Adesso, l’io tifoso si è preso una lunga aspettativa e non mi ha comunicato la data del rientro. Così, il mio io osservatore neutrale, estraneo, distaccato osserva con calma bradicardica, senza per questo però parlare di noia e di disamore, anzi: certe azioni, certi nuovi campioni, certi attacchi e certi finali adesso mi riempiono l’occhio e la pancia di bellezza pura, riportandomi dopo tanto tempo alla vera contemplazione dello spettacolo ciclismo, nudo e crudo, per quello che è, senza il filtro sublime e carogna delle passioni. Tra Pogacar e Roglic, tra Alaphilippe, Van Aert e Van Der Poel, tra Evenepoel e Bernal, non mi interessa più chi vinca, ma come. È la sublimazione totale dello spettacolo, senza filtri e senza bandiere. In definitiva, è il trionfo assoluto del ciclismo, libero dai condizionamenti umanissimi del tifo.
Ricapitolando, la chiuderei così: non è per niente male, anzi è una bella novità, questa degustazione poetica e disinteressata. Me la sto godendo sul serio, non faccio la volpe con l’uva. Però lo dico subito, senza ipocrisie: me la godo nella cieca speranza che sia uno spettacolo con una sua scadenza. Uno, due, massimo tre anni. Un periodo che vivo come l’Avvento: bellissimo, perché so che poi il Natale arriva. Riscendendo al ciclismo, il mio problema sta tutto qui: mi sto godendo l’Avvento, ma sinceramente non so quanto durerà. Non so quando tornerà Natale, con un nuovo tifo a cambiarmi la visuale. Purtroppo, dall’aria che tira in Italia, temo che il 25 dicembre sia lontanissimo. Forza Ganna, è tutto quello che riesco a dire.