Della Casa, il presidente dell'Europa

di Pier Augusto Stagi

Il ciclismo europeo ha scelto il suo Mario Draghi, un tecnico del fare come l’ex Governatore della Banca d’Italia, nonché Presidente della Banca Centrare Europea (BCE), perché nel suo piccolo anche Enrico Della Casa ha un curriculum di tutto rispetto e i suoi consensi sono di livello continentale e non solo domestico.
Enrico Della Casa è un uomo preparato e forse invidiato, sicuramente ap­prez­zato, tanto da riscuotere il rispetto e la considerazione di tutti per andare a ricoprire la carica di presidente della Uec (dal 6 marzo, ndr), la casa del ciclismo europeo dopo otto anni da Se­gretario Generale (marzo 2013, ndr) e una lunga militanza - più di dieci anni - nelle stanze della Federazione Ci­cli­stica Italiana come responsabile della logistica delle squadre italiane strada e pista, oltre a quattro anni trascorsi all’Uci. Enrico Della Casa, reggiano di Cor­reg­gio, classe ’67 (è nato il 10 gennaio, ndr), ma svizzero di nascita, è ve­nuto alla luce a Losanna, sede del Cio e dello sport tutto, lui che lo sport ce l’ha davvero nel sangue, non poteva scegliere altro posto dove nascere.
Figlio di Lina Corte, friulana e papà Luigi di Correggio, entrambi emigrati come tanti nostri connazionali negli An­ni Cinquanta. Un amore sbocciato in terra straniera, in quel lembo di zo­na neutrale che per la politica è territorio di pace e per gli uomini di buona volontà anche d’amore. Papà Luigi pri­ma lavora all’ortomercato, dove scarica frutta e verdura, poi sale sul taxi per scorrazzare clienti a Berna e poi a Lo­sanna. Mamma Lina, invece, stira che è un piacere in una scuola internazionale d’élite, ma troppo presto si ammala e lascia solo il piccolo Enrico, di appena due anni.
«Di fatto mi hanno tirato su i miei non­ni, ma devo dire che l’amore non mi è mai mancato - mi racconta Enrico -, an­che se crescendo la mamma mi è man­cata. Era un’assenza troppo presente, nel mio cuore e nella mia mente, arricchita da tanti racconti ed episodi di una donna che non ho mai conosciuto e che pure mi sembra di conoscere».
Le scuole in Svizzera?
«Sì, assolutamente. Terminate le superiori, che da noi sono le medie, ho co­minciato il praticantato, come è abitudine fare nella Confederazione elvetica. Tre giorni e mezzo a lavorare in banca e un giorno e mezzo a sui banchi di scuola: prima a Losanna, poi a Gi­ne­vra. Quindi la maturità federale in economia, un anno di università, ma decido di partire per sei mesi per l’In­ghil­terra, c’è da imparare la lingua. Poi per la stessa ragione volo in Ger­mania, ma lì non apprendo solo una lingua nuova, conosco anche la donna della mia vi­ta…».
La sua musa…
«Proprio così. Si chiama Tiziana Musa, ed è proprio la mia musa. Anche lei emigrata a 17 anni dalla Sardegna a Colonia, dove apre una gelateria. È amore a prima vista e decidiamo di fare la strada assieme».
Di strada tanta…
«In verità per amore inizialmente decido di fermarmi, proprio per stare con lei a Colonia, ma c’è da mantenersi e allora decido di fare il cameriere: affino la lingua e raggranello ciò che mi serve per vivere. Restiamo lì per un po’, ma nel ’95 decidiamo di tornare in Sviz­zera, a Losanna. Vorrei andare in ban­ca, ma il momento economico in quel periodo non è dei più felici e nessuna porta si apre. Grazie al cielo, come mio padre, avevo in tasca anche la licenza da taxista e mi metto al volante per un po’, fin quando non mi propongono di andare a dirigere una filiale di autonoleggio dell’Europcar a Losanna, cosa che faccio con grande entusiasmo per tre anni, fin quando nel ’98 un’amica di mia moglie, Stephanie Strebel, figlia dell’allora direttore del Centro Mon­diale dell’Uci Jean Pierre, mi segnala al papà il quale a sua volta mi propone di andare a lavorare con loro. Il lavoro all’autonoleggio mi piace un sacco, le cose vanno bene e guadagno non po­co, ma la passione per il ciclismo è im­mensa. Accetto!».
Il ciclismo una passione fanciulla.
«È così. Mi è sempre piaciuto un sac­co. Ho corso da allievo fino a dilettante (dall’83 al ’92, ndr) con le maglie della Cyclophil Lausannois e la Ruota d’Oro Renens. Ho corso tanto su strada, ma soprattutto sulla pista di Ginevra, di­sputando gare di Madison e anche dietro Stayer. La pista mi è rimasta nel cuore».
Quando è stato chiamato all’Uci, però, non fu inizialmente pista…
«No, mi affidarono il coordinamento della Commissione Antidoping, dovevo curare in particolare l’aspetto logistico. Era il ’98, quello del Tour di Pantani e dello scandalo Festina: beh, fu una grande esperienza. Poi nel 2001, l’allora presidente Verbruggen mi af­fi­dò il coordinamento della Commis­sione pista, ma poco dopo mi arrivò la proposta da parte della Federazione Ciclistica Italiana e nel 2002, con mia moglie Tiziana e i miei tre ragazzi (Ivan, 24 anni, Mattia 20 e Giada 16, ndr), ci siamo trasferiti a Correggio, anche perché volevamo assolutamente che i ragazzi vivessero un po’ di tempo con il loro nonno, purtroppo mancato nel 2005».
Ma dalla Federciclismo, incomincia anche il suo vero cammino europeo.
«La Federciclismo è per me una grande occasione, una bellissima opportunità. Io sono entusiasta del mio nuovo ruolo e mi do da fare per non deludere nessuno e, come sono solito fare, non mi risparmio. Nel 2005 vengo nominato componente della commissione pista dell’Uec, carica che ricopro fino al 2009, poi componente commissione pista dell’Uci, ruolo che ho ricoperto fino alla stagione 2013. Nel marzo di quello stesso anno, vengo nominato Segretario Generale della Uec. Anche quella è per me una grandissima opportunità e non solo per me. La Uec è una bella macchina che però viene usata troppo poco, e noi tutti, sotto la presidenza David Lappartient, la togliamo dal garage e le diamo una nuova vita. Fino a quel momento non c’era nemmeno la partita iva, un piano contabile, un sito internet. Per certi versi è stato anche facile, perché la Uec fino a quel mo­mento era davvero una scatola vuota. In poco tempo, l’abbiamo riempita di contenuti».
Insomma, avete dato vita alla Uec, dopo 23 anni di vita?
«Diciamo di sì. Non si capiva bene co­sa fosse e dove potesse arrivare. Oggi con una squadra giovane ed efficace stiamo proseguendo un cammino di trasformazione ed evoluzione molto importante e anche parecchio gratificante. Anche il ciclismo mondiale, con una Uec così frizzante, è più forte».
Cosa fa la UEC?
«Organizza tutti i Campionati Europei e le Coppe Europee. Organizza almeno cinquanta giornate di gara all’anno, non solo su strada, ma anche su pista, mountain bike, artistico o ciclopalla, trial e ciclocross. Insomma, oltre alle specialità olimpiche abbiamo un programma molto ampio di gare, che ri­prende tutte le specialità del ciclismo»
Quante sono le nazioni affiliate?
«Attualmente sono 50, nel senso che le ultime due nazioni europee che sono state ufficialmente riconosciute dalla UCI sono state il Kosovo e l’Islanda».
E quanti atleti rappresenta?
«È una gran bella famiglia di 824.000 tesserati. Rappresentiamo comunque l’85% del ciclismo mondiale, con na­zioni di riferimento come Spagna, Fran­cia, Germania, Belgio, Spagna, Italia e Gran Bretagna che sono la punta di diamante della nostra struttura, però abbiamo anche nazioni meno sviluppate che noi aiutiamo direttamente attraverso il nostro piano di solidarietà».
Piano di solidarietà: di cosa si tratta?
«Verte sul finanziamento di progetti a quelle nazioni che sono meno sviluppate. Abbiamo piccole nazioni come Mal­ta, Montenegro, Kosovo, Cipro, la stessa Grecia che vanno supportate. Per noi sono nazioni emergenti e questo lo facciamo anche in accordo e in perfetta armonia con il Centro Mondiale dell’Uci (CMC). All’interno del progetto di solidarietà abbiamo appunto l’organizzazione di campi di allenamento per corridori e allenatori che si chiamano Centri Europei del Ciclismo, dove però ci appoggiamo, dal punto di vista tecnico, ai docenti del CMC».
La crisi sta anche facendo cambiare pelle al mondo del ciclismo: cosa dobbiamo aspettarci?
«È un momento particolare, con meno sponsor, meno organizzatori, meno affiliazioni, anche perché la concorrenza tra gli sport è sempre più accesa e serrata. Per il futuro vedo sempre più attività di fuoristrada tipo mountain bike o BMX, per ovvie ragioni: perché i genitori preferiscono vedere i loro ragazzi gareggiare in un contesto di assoluta sicurezza. Anche noi come UEC abbiamo un programma di Coppe Europee di BMX, che è molto attrattivo: insomma, li mettiamo in bicicletta e poi li facciamo crescere con calma. Per scegliere la specialità c’è sempre tempo. Mountain bike, pista, strada o BMX, l’importante che siano su una bicicletta».
La crisi economica la sentite anche voi come UEC?
«Tocca più le Federazioni nazionali. Di­­rei che tutto il movimento paga un’immagine che negli ultimi anni è stata molto offuscata e ferita da tante troppe vicende legate al doping, ma credo che l’UCI, attraverso il “Passa­porto Biologico” e non sono quello, ab­bia trovato la strada giusta per recuperare sul piano dell’immagine e della credibilità. I risultati sono sotto gli oc­chi di tutti».
A livello di popolarità come siamo messi?
«I numeri dicono che la bicicletta piace un sacco e sempre di più. In un Paese come l’Inghilterra è autentico boom, ma anche da noi si sta vivendo un vero e proprio Rinascimento. La gente ama il ciclismo e le grandi classiche. È uno sport di alto livello che puoi toccare, sfiorare, assaporare: questo non è da tutti».
Su cosa punterete?
«Sul ciclismo femminile, su quello giovanile. Abbiamo in cantiere i campionati europei esordienti e allievi di Moun­tain-Bike, così come la coppa Eu­ropa di ciclocross per allievi, juniores e under 23, solo per i paesi emergenti. E poi Giochi della Gioventù Europei e i Giochi Multisport che si terranno a Monaco di Baviera nel 2022. Quest’an­no, invece, metteremo in sce­na in Au­stria i primi campionati Eu­ropei di Paraciclismo. Ma la no­stra ve­ra mission è far crescere le na­zioni me­no attrezzate, formare, aiutare la cre­sci­ta, dare una mano concreta agli organizzatori per sviluppare corse di classe 1 e classe 2».
Potrete anche avanzare proposte all’Uci per modificare l’impianto World Tour…
«Per questo c’è già una Commissione Strada più che efficiente».
Da ragazzino per chi faceva il tifo?
«Bernard Hinault, anche se Marco Pan­­tani di emozioni me ne ha regalate tante».
Sa quattro lingue: il francese che è la sua lingua madre, l’italiano, l’inglese e il te­de­sco e aggiungiamo anche un po’ di spagnolo. È nato in Svizzera da genitori italiani: lei come si sente, cittadino del mon­do?
«Il mondo mi piace un sacco, ma mi sento profondamente italiano. Sì, sono italiano, di Correggio, la terra di Lu­ciano Li­ga­bue, autore di “Made in Italy”».
Ligabue: le piace?
«Molto».
Sa che uno dei suoi album più felici si in­ti­tolava “Miss Mondo”, lei potrebbe essere Mister Mondo…
«Per ora mi va bene l’Europa».
E “Certe notti” cosa sogna?
«Di correre, ma non vinco mai, riesco a stare però a ruota di Bernard Hinault. È come vincere. E poi sogno anche un ciclismo sempre più in “Mondovi­sio­ne”, altro album di Ligabue».
Beh, allora se mi sfida non mi resta altro da dirle: “Start”, si parte.
«Partiamo, “Arrivederci, mostro!”».
A risentirci.

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