di Giulia De Maio
Le vuole suonare a tutti. Alessandro Covi fa parte della generazione di baby fenomeni che si sta imponendo nel mondo del ciclismo. Il ventiduenne varesino della UAE Emirates al primo anno nella massima categoria ha visto il suo compagno Pogacar conquistare il Tour de France, Evenepoel vincere il Giro di Polonia e poi giocarsi Il Lombardia prima di finire in uno strapiombo, Van der Poel e Van Aert darsele di santa ragione sull’asfalto come sullo sterrato, Bernal soffrire dopo il luccichio della maglia gialla 2019 e, nel suo piccolo, ha lavorato sodo per arrivare nel giro di qualche anno a regalarsi e regalarci qualche bella soddisfazione. Durante la quarantena ha anche scoperto una nuova passione, quella per la musica da suonare con la chitarra di papà. La sua colonna sonora? Eye of the tiger perché come Rocky è pronto a combattere e, anche se dovrà vedersela con coetanei fortissimi, «“È finita”, si dice alla fine» e lui è solo all’inizio.
Com’è stato passare professionista durante una pandemia mondiale?
«La pandemia è quasi il mio nome, aggiungi una d al mio cognome ed eccolo lì il covid (ride, ndr). È stato un anno complesso per tutti ma per me bello perché mi ha offerto emozioni mai provate. Arrivare al professionismo vuol dire raggiungere il top, riuscirci con una squadra tra le migliori al mondo, è bellissimo. Chiaramente sarebbe stato meglio che il covid non ci fosse stato, comunque io il 2020 me lo tengo stretto perché è l’anno in cui ho esaudito un mio primo sogno. Purtroppo, come tanti, il covid 19 l’ho provato sulla mia pelle. Ho scoperto di averlo in corpo tre giorni prima di partire per la Vuelta a España, che avrebbe rappresentato il mio debutto in un grande giro. Ero a casa, stavo andando bene, è stato un peccato perché volevo mettermi alla prova in una corsa lunga con i grandi. Ho perso un’occasione per crescere, ma non ho potuto farci nulla e ormai così è andata. Dell’anno passato non butto via niente, raccolgo quanto imparato e ne faccio tesoro».
Fossi stato un semplice studente il problema sarebbe stato la didattica a distanza...
«A parlare di scuola tocchiamo un tasto dolente. Ho frequentato un istituto professionale, indirizzo elettronica, ma non ho conseguito il diploma. Mi rode un po’ aver mollato prima della fine degli studi, magari un giorno mi rimetterò sui libri, ma per ora resto concentrato al cento per cento sul ciclismo. Sono solo all’inizio, ma il secondo posto ottenuto al Giro dell’Appennino, il nono alla Freccia del Brabante e in generale le belle prestazioni che sono riuscito a mettere in scena mi danno fiducia. Sono un corridore completo, scarso in tutto (scherza di nuovo, ndr). Mi piacciono gli strappi e le volate a gruppi ristretti. Anche se in questi ultimi anni sono andato bene soprattutto nelle corse a tappe. Sto vivendo un sogno ad occhi aperti. Vedere tanti campioni di fianco a me in ritiro o in allenamento è qualcosa di davvero stratosferico. In squadra mi trovo bene con tutti, con Aleksandr Riabushenko ho un feeling particolare e tra i direttori sportivi ho trovato il mio riferimento in Marco Marzano, ma davvero mi trovo a mio agio con tutti gli elementi di questo gruppo stupendo».
Il ciclismo è la passione della famiglia Covi.
«Esatto. Mamma Marialisa Giucolsi è stata professionista, papà Andrea ha corso fino a dilettante. Lei ora si occupa della casa, lui lavora come ingegnere alla Nielsen. Ho una sorella più grande di me di un anno, Marina, che studia in Polonia dove papà lavora. Da piccolo i miei genitori mi hanno fatto provare tutti gli sport possibili. Mi sono cimentato con il tennis, l’atletica, lo sci e il nuoto, finché un giorno mi hanno portato a vedere una gara di ragazzini vicino casa e io ho detto: “Questo è il mio. Perché loro sono in bici e io no?”. Così mi hanno portato alla Bottega del Romeo, conosciuto ciclista di Ispra (Va), amico di famiglia, che mi ha fornito le due ruote per tutte le categorie dei giovanissimi. Alla prima gara, avevo 6 anni e indossavo la maglia della Orinese, finii secondo dietro a un ragazzino che da lì in poi mi avrebbe battuto tante altre domeniche. Era decisamente più sviluppato di me, io ero un bocia mingherlino... Ero l’eterno battuto, ma poco mi importava perché finita la gara c’era il panino alla salamella che mi aspettava. Da esordiente ho difeso i colori del Team Cadrezzate, da juniores sono passato al Team Fratelli Giorgi, da Under23 al Team Colpack Ballan nel quale sono restato fino alla fine del 2019 per poi passare professionista con la UAE Emirates. Il mio idolo? Damiano Cunego, che rivedo ancora giovanissimo in maglia rosa a dominare il Giro d’Italia. Mi piaceva il suo modo di correre».
A parte pedalare, come trascorri le giornate?
«Ho scoperto quest’anno la passione per la chitarra. Ho iniziato a suonare durante la quarantena, dormivo nello studio di papà che è dotato anche di bagno e doccia, così da essere isolato dal resto della famiglia. Lui la suona e mi ha sempre affascinato, in quei giorni di riposo forzato non avendo la tv o altre distrazioni ho provato a utilizzarla per passare il tempo. Inizialmente strimpellavo solo una canzone, Gianna di Rino Gaetano, poi guardando dei video su youtube ho iniziato ad ampliare il mio repertorio. Gli amici dicono che sono bravo, sono autodidatta. Per il resto seguo il calcio, tifo il Milan, che quest’anno sta andando proprio bene. Mi piace passeggiare in montagna e andare in barca con gli amici, abitando vicino al lago ne abbiamo la possibilità. In quanto a cibo sono una buona forchetta: se devo scegliere un piatto dico kebab. Dopo il ciclismo agonistico cosa farò? Sicuramente diventerò un famoso musicista (ride, ndr). Non lo so, spero di non dovermi porre questa domanda per un po’ di anni».
Cosa ti aspetti da questa stagione?
«Di raggiungere la vittoria. Alzare le braccia al cielo nel professionismo è un sogno che ho fin da bambino. L’ambizione è di migliorarmi sempre di più, in gara e in allenamento, a 360°. Il mio 2021 è iniziato da Marsiglia e proseguirà con un bel calendario che comprende Parigi-Nizza, probabilmente la Milano-Sanremo, Paesi Baschi, Classiche delle Ardenne e Giro d’Italia. L’anno scorso mi ero commosso quando c’era mezza possibilità che potessi partecipare alla corsa rosa, mi sono scese le lacrime, poi per il covid anche quell’occasione è sfumata, ma sapere già ora che quest’anno vi parteciperò mi dà un’ulteriore motivazione a prepararmi al meglio. Non vedo l’ora e voglio far bene, partecipare e basta non ha senso».
Per la tua carriera cosa desideri?
«Voglio diventare un corridore con la C maiuscola. Spero di riuscire a vincere, questo è il mio obiettivo, altrimenti punto almeno ad essere un buon gregario, ma per carattere e attitudine prima vorrei provare a diventare un campione. So che è più facile a dirsi che a farsi ma ho al mio fianco uno come Tadej Pogacar che ha dimostrato che l’età non conta. Penso e spero di arrivare prima o poi ai suoi livelli o giù di lì. Se proprio vogliamo spararla grossa, il mio sogno più grande è vestire la maglia rosa. Senza sembrare arrogante, credo che bisogna sempre puntare in alto, se poi si atterra poco più giù non importa. L’importante è averci provato con tutte le proprie forze».