Dario Davi Cioni: «Obiettivo grandi giri»

di Nicolò Vallone

Dario David Cioni, 46 anni, è un’incarnazione vivente della Ineos Grenadiers, top team britannico con una forte anima italiana. Proprio come lui, nato a Reading ma che in carriera correva per i colori azzurri. Lui che vive vicino Firenze con un aplomb very british e par­la un italiano molto elegante con l’accento di Sua Maestà. Il diesse giusto nel right place. L’abbiamo raggiunto virtualmente all’indomani del lungo ritiro (quasi tre settimane) di Gran Ca­­na­ria, per fare il punto sulla stagione passata e su quella che verrà.
Prima di parlare di ciclismo, ci tolga una curiosità: come si concilia un lavoro da direttore sportivo di alto livello, sempre in viaggio, con la vita privata?
«È un po’ una continuazione della carriera da corridore, ci fai l’abitudine. Tutti noi sportivi professionisti finiamo per amare questo stile di vita, non è facile ma sappiamo anche che ha una durata limitata».
Quello che stiamo attraversando è un pe­riodo di grande incertezza: come avete vissuto la pandemia e come questa continua a influenzare il vostro lavoro?
«È una situazione difficile per tutti e, anzi, rispetto ad altre categorie siamo stati fortunati perché siamo riusciti, per quanto con limitazioni e ritardi, a svolgere l’attività. E non è poco. Poi certo, un calendario che continua a cambiare (tra annullamenti e rinvii, sono saltate tra le altre le corse australiane, la Vue­lta a San Juan e la Volta ao Al­gar­ve, ndr) non permette ancora di definire completamente i programmi. Speravamo nella Valenciana, ma è stata rinvita, vediamo cosa succede in Francia, dopodiché inizieranno le gare italiane per le quali pare che la situazione al momento sia migliore».
Siamo italiani, partiamo da Filippo Gan­­­na. Sta mettendo in atto una trasformazione che da super cronoman sembra portarlo a qualcosa di più. Per caratteristiche ed evoluzione da corridore, possiamo paragonarlo a Indurain?
«Sono confronti difficili da fare. In­du­rain è Indurain, Cancellara è Can­cel­lara, Filippo è Filippo. Ha iniziato la carriera ottimamente per la sua età, prima con i titoli conquisati in pista e le conferme che ora sta avendo su strada. È giusto guardare il passato ma lui deve pensare “solo” a essere Ganna. E a fi­ne carriera si vedrà se è stato un In­du­rain, un Cancellara... o un Ganna, appunto!»
Che anno sarà per lui?
«Sarà un 2021 significativo perché c’è l’Olimpiade di Tokyo, dove si è guadagnato la convocazione per la cronometro individuale, suo grande obiettivo, ma avrà anche l’impegno su pista, per chiudere il cammino iniziato anni fa. Ci sono stati buoni progressi e se tutto il quartetto arriva al meglio può giocarsi una medaglia: a parte i danesi, gli altri, vedendo l’ultimo Mondiale, sembrano alla portata. Questo importante appuntamento su pista condizionerà il suo ca­lendario: si era ipotizzato in un pri­mo momento di fargli fare la Roubaix, ma per ora è un progetto in stand-by perché sarebbe stato troppo difficile concentrarsi pure su questo. Tra gli obiettivi principali su strada, oltre alle prove cronometro nelle quali tiene a far bene per onorare la maglia di campione del mondo, c’è naturalmente il Giro d’Italia, di cui ha avuto un bell’assaggio l’anno scorso indossando nei primi giorni la maglia rosa: non na­sconde di voler tornare al Giro e vestire di nuovo quel simbolo, per poi dedicarsi al lavoro per il capitano. Con­tinuerà a inseguire vittorie in linea e non solo nelle crono, e magari la classifica generale finché il percorso lo consentirà».
A proposito di capitani, chi saranno i vo­stri quest’anno?
«Speriamo... di dover fare delle scelte difficili. La tendenza negli ultimi anni è di affrontare i grandi giri con più di un leader. Saranno la strada e le corse precedenti a stabilire chi sarà il capitano: sarà semplicemente chi va più forte».
Facciamo qualche nome, allora. Dopo i problemi fisici a schiena e gambe che lo hanno attanagliato, togliendogli peraltro la possibilità di lottare di nuovo per a ma­glia gialla al Tour, come sta ora Egan Bernal?
«Ha lavorato molto duramente quest’inverno, avendo finito la stagione in anticipo rispetto agli altri. Le sensazioni sono positive, ha tanta voglia di tornare a correre e lo rivedremo presto in gara».
Stessa domanda per Geraint Thomas, sfortunatissimo al Giro d’Italia.
«Per fortuna i suoi problemi fisici, an­che se dopo quella caduta per la borraccia ha avuto un altro infortunio, sono stati meno gravi di quelli di Ber­nal o addirittura di Froome. Adesso sta benino, ma è ancora presto per dire come sarà la sua annata».
Arriviamo così all’uomo che, in seguito alla sfortuna di Thomas, si è giocato le sue chance di classifica fino ad aggiudicarsi la maglia rosa al Duomo di Milano: Tao Geoghegan Hart. Com’è cambiato il suo status all’interno della squadra?
«Che sia cambiato è sicuro, quel successo lo ha valorizzato a livello di “ran­king interno”. Abbiamo la fortuna di avere in organico più vincitori di grandi giri: purtroppo abbiamo perso Froo­me ma ora è entrato lui. Co­munque in ritiro l’ho visto concentrato come pri­ma, è rimasto umile».
Ha fatto più volte riferimento a Chris Froome. Oltre a lui, trasferitosi alla Israel StartUp Nation, sono partiti Chris Law­less (approdato alla Total Direct Energie), Ian Stannard (ritiratosi per motivi di sa­lute) e Christian Knees, passato nel vostro staff tecnico. Avete ingaggiato Laurens De Plus, Dani Martinez, Richie Porte, Adam Yates e il neopro Tom Pidcock. Ci commenta il vostro mercato?
«I corridori in scadenza erano pochi, tra loro Ganna e Geoghegan Hart che hanno rinnovato insieme a Leo­nardo Basso e Cameron Wurf. Non c’erano grosse manovre da fare. Il fatto che Chris abbia deciso di cambiare squadra ha liberato parecchio budget. Porte è un gradito ritorno, Yates una novità importante, Martinez un ottimo giovane che speriamo di far progredire, Pid­cock un talento che supportiamo da molto tempo e a breve si aggregherà a noi, De Plus proviene da un 2020 travagliato ma sarà di supporto per le salite nei grandi giri e proveremo a fargli fare il salto di qualità».
Tra i nuovi innesti, Porte al Tour de Fran­ce è stato il “primo degli altri” dietro ai due dominatori sloveni: è stato questo risultato a convincervi?
«Le trattative sono iniziate già pri­ma della Grande Boucle. Richie era stato con noi fino al 2015, poi ha ricevuto offerte allettanti da altre squadre e le nostre strade si sono divise, ma è rimasto sempre in ottimi rapporti con tutti alla Ineos. Questo ritorno è frutto di una volontà reciproca».
Tornando su profili di casa nostra e su elementi già in organico dall’anno scorso, cosa ci può dire degli altri tre italiani Salvatore Puccio, il già citato Leonardo Basso e Gianni Moscon?
«Puccio sta sempre bene, ormai è una roccia, un punto di riferimento non solo per i suoi connazionali ma per tutto il team. Insieme a Luke Rowe è uno dei cardini per fare gruppo. È uo­mo d’esperienza, ha la fiducia del gruppo e non è mai un punto di domanda. Basso ha avuto lievi noie muscolari a dicembre, ma in ritiro è tornato nella tabella di marcia senza alcun problema. È pure lui uno degli uomini squadra: noi direttori siamo contenti di lui, è sempre pronto quando viene chiamato. Rispetto a Puccio si concentrerà di più sulle classiche. Moscon, dopo aver cor­so pochissimo l’anno scorso, ora sta be­­none e ha fatto un’ottima preparazione invernale: quando attaccehrà il numero sarà subito competitivo».
Una squadra non è fatta solo di atleti ma anche di staff: questo è l’anno del gran ritorno di Rod Ellingworth dopo la pa­rentesi alla Bahrain...
«Nel 2020 purtroppo abbiamo perso Nicolas Portal (morto per infarto a marzo, ndr), abbiamo messo una toppa internamente e con il calendario ridotto siamo riusciti a gestire la situazione con l’organico esistente. Arrivato l’inverno abbiamo subito messo un tassello importante come Rod, una figura esperta, che conosce perfettamente la squadra avendone fatto parte fin dall’inizio: ha assunto l’incarico di coordinare la parte performance del team. A lui si è aggiunto Dan Hunt, che ha fatto parte della squadra nei primi anni, poi ha avuto esperienze in altri settori sportivi e adesso è tornato con una nuova funzione. Sia Ellingworth che Hunt saranno senz’altro d’aiuto per Da­ve Brailsford. In più abbiamo due nuovi elementi nel roster dei direttori sportivi come Steve Cummings e il so­pracitato Christian Knees: faranno un anno di esperienza e poi si definiranno meglio i loro ruoli».
E novità a livello tecnico e di sponsor?
«Come ogni anno ci sarà uno sviluppo dei materiali: insieme ai nostri fornitori, quasi tutti italiani peraltro, investiremo per essere sempre più veloci. Ci sarà un incremento della presenza di Belstaff, uno dei brand più in evidenza in Gran Bretagna, che fa già parte della galassia Ineos ed è in bella vista anche sull’im­barcazione impegnata in Ameri­ca’s Cup. Per il resto Ineos prosegue con gli investimenti sul marchio Gre­nad­ier (automobili fuoristrada, ndr) e verso fine anno avremo alcuni mezzi definitivi al posto di prototipi».
In definitiva, quali sono gli obiettivi del team Ineos nel 2021?
«Il Tour resta comunque il Tour, ma anche il Giro d’Italia con la vittoria di Geoghegan Hart e la Vuelta a España col secondo posto di Richard Carapaz hanno confermato la loro importanza per noi: l’obiettivo principale è provare a conquistare i tre grandi giri, anche se naturalmente è difficile centrarli tutti nello stesso anno. Altro obiettivo im­portantissimo è vincere di più rispetto al 2020, che non è stato il nostro anno di maggior successo, e farlo con più corridori diversi. Senza velocista di ri­ferimento è un po’ più difficile, ma preferiamo contare tanti vincitori differenti all’interno della squadra anziché concentrare le vittorie, pur nu­merose che siano, su po­chi corridori.»
Punterete anche a una clas­sica monumento? L’ulti­ma vit­toria fu quel­­la di Michal Kwia­t­­­­ko­wski alla Mi­la­no-Sanremo nel 2017, quando ancora vi chiamavate Sky...
«Perché no? Va letto in quest’ottica l’in­­serimento di Adam Yates: lui e Kwiat­­kowski possono essere i nostri nomi di punta, soprattutto per le Ar­den­ne e per il Lombardia, e aiutare i giovani a crescere. Vediamo poi cosa deciderà di fare Moscon, che sembra più orientato sulle Ardenne che sulle classiche del pavé».
E tra quei giovani c’è Ethan Hayter: che progetti avete su di lui?
«L’anno scorso è stato un po’ condizionato dall’attività su pista, specie nella prima parte di stagione. Quando poi sono saltate le Olimpiadi è stato più libero e ha destato ottime impressioni. Si è messo in mostra in Italia, dove si è piazzato al Toscana, ha lavorato alla grande per Jhonatan Narvaez alla Cop­pi&Bartali, e ha vinto l’Appennino, co­sa che non è proprio da tutti. È sicuramente un talento molto importante, ma sia per lui sia per Pidcock vale questo concetto: invece di cominciare a dire “si prova a vincere qui, si prova a vincere là” è meglio dare l’opportunità di correre senza pressioni e poi, nel ciclismo attuale, può succedere benissimo che un giovane ti porti a casa una corsa importante».
Fin qui abbiamo fatto tanti nomi, ma in una scuderia di trenta corridori ce ne sa­reb­bero ancora tanti altri di cui parlare. Ce n’è uno in particolare che non abbiamo ancora menzionato e vorrebbe citare?
«Oltre che dei quattro italiani del team, sono allenatore di Michal Golas. Per lui vale il discorso fatto su Puccio: so­no uomini di esperienza che sanno fare il loro mestiere e con loro il rapporto è di collaborazione, più che di direttive. Conoscono se stessi talmente bene che ogni programma si decide insieme. Non si dice loro cosa devono fare perché lo sanno già da soli».
Da gente esperta ancora in attività a una leggenda del Team Sky come sir Bradley Wiggins. Vi sentite ancora? C’è la possibilità di vederlo un domani in Ineos con una nuova veste?
«Con Bradley avevo ottimi rapporti quando correvo e tuttora quando lo incontro ci salutiamo. Ma è sempre stato un tipo schivo e riservato, non è uno che si frequenta tanto. Ora di ciclismo si occupa in televisione, come opinionista di Eurosport, e non penso che ambisca a tornare a lavorare in una squadra».
Un ultimo tuffo nel passato, stavolta re­centissimo. Ci racconta per filo e per segno quel capolavoro strategico e tecnico della Ineos che è stato il Giro d’Italia vinto da Geoghegan Hart?
«Per tutti quelli che sono stati lì, l’ultima edizione della Corsa Rosa rimarrà per sempre come una delle esperienza top della carriera. Personalmente la metto almeno al pari della prima vittoria al Tour de France di Wiggins. La cosa più bella è stata che, alla fine della prima settimana, tutti i nostri corridori in gara si erano piazzati nei primi quattro in almeno una tappa. Certo, c’erano stati alti e bassi: la partenza col botto di Filippo Ganna e il tonfo di Geraint Thomas. Poi però ci sono stati solo gli “alti”, a partire dalle vittorie di Ganna, anche in linea, di Narvaez e di Geo­ghe­gan Hart. Ecco, il sogno rosa ha iniziato a concretizzarsi quando Tao ha ta­glia­to per primo il traguardo di Pian­cavallo dopo essere rimasto insieme ai due Sunweb, Kelderman e Hindley. Ha fatto un grandissimo lavoro il direttore Matteo Tosatto, che ha saputo gestire la situazione mantenendo fino alla fine un profilo basso. Non ci siamo mai esposti direttamente e non abbiamo mai lasciato intendere di puntare alla maglia rosa: fino alle ultime tappe sia­mo rimasti fuori dai radar e nessuno si aspettava che ci avremmo provato davvero. In rosa c’erano sempre altre squa­dre, la Sunweb aveva corridori mes­si meglio, i gap sembravano incolmabili, ma i ragazzi ci hanno sempre creduto e hanno fatto saltare il banco. Una cosa che a volte è più facile fare quando non hai addosso la pressione. Tanto è vero che la Deceuninck Quick Step, di solito una squadra arrembante, avendo la maglia da difendere è rimasta un po’ con le mani legate: sono stati grandissimi e se avessero vinto il Giro non avrebbero rubato nulla a nessuno, peraltro con un organico giovane come quello a disposizione del diesse Bra­ma­ti. Ma alla fine è stato bello che sia an­data così e con tutti quei cambiamenti in cima alla classifica generale il Giro è stato uno spettacolo».
Con quali squadre sentite maggiormente la competizione quest’anno?
«Viene naturale nominare una formazione molto ben strutturata come la Jumbo Visma: c’è una rivalità sana. Pri­ma tutti guardavano noi, ora pure noi guardiamo cosa fanno gli altri per capire in cosa dobbiamo migliorare. E non dimentichiamoci della UAE Emi­rates: non solo hanno Pogacar, ma han­no condotto ottime campagne acquisti ne­gli ultimi an­ni. Non è un caso che ab­biano vinto il Tour: ormai sono all’altezza nostra e della Jumbo. Inoltre, la Deceunick Quick Step dimostra come basti un gran corridore per alzare velocemente».
Per chiudere. Il 2021 è il suo decimo anno in ammiraglie Sky/Ineos: quale sarebbe il regalo più bello per questo speciale anniversario?
«Poter disputare una stagione piena con tutte le gare al loro posto».

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