Chaves, il sorriso grande del colibrì di Colombia

di Francesca Monzone

Il suo sorriso ha conquistato il mondo, con la semplicità di chi al successo è arrivato quando erano in pochi a crederci. Este­ban Chaves è il ragazzo di Bo­go­tà che aveva lasciato la sua casa in Colombia per cercare fortuna nel ciclismo italiano. Ancora oggi ricorda il freddo della Lombardia, di Ber­gamo, ma anche il calore di una seconda famiglia che lo ha accolto e accudito come un figlio.
La vita per Esteban Chaves non è stata facile: nel 2013 “il Colibrì” aveva ri­schiato seriamente di chiudere le sue ali cadendo al Laigueglia. Due nervi del braccio lesionati e più di sette ore di intervento sembravano aver messo fine alla sua carriera. Ma Chaves non voleva finire come una vittima del ciclismo, voleva rialzarsi e a Corvara nel 2016 è tornato a volare. Tappa e poi ma­glia rosa e il sogno accarezzato di po­­ter vincere un grande giro. Quel gior­no a Corvara sembrava invincibile, l’abbraccio con i suoi genitori ha commosso il mondo, così come la sua resa onorevole pochi giorni dopo di fronte a Nibali. Chaves e il suo sorriso non si sono mai spenti e lui ama ripetere: «Nel­la vita bisogna sempre rialzarsi e guardare avanti».
Il colombiano della BikeExchange non vince dal 2019, un periodo lungo legato ad eventi sfortunati e momenti di ri­flessione personale, ma adesso vuole alzare di nuovo il suo braccio passando la linea del traguardo per primo. Le am­bizioni sono tante ed Esteban vuole tornare ad essere quel Colibrì che, con veloci battiti di ali, riusciva a volare davvero in alto.
Il 2020 è stato un anno difficile, nel quale lei ha inseguito una vittoria che non è ar­rivata. Cosa è successo?
«È stato un anno difficile per tutto il mondo, non solo per me. Sicuramente per noi atleti professionisti è stato ve­ra­mente duro, ma dobbiamo anche dire che in questo anno abbiamo imparato tante cose. Ci sono stati momenti in cui non riuscivamo a capire quali potevano essere i nostri obiettivi, era anche difficile alzarsi la mattina e decidere cosa fare. Sicuramente ci sono stati at­timi di smarrimento, ma al tempo stesso anche degli aspetti positivi: ho passato più tempo con la mia famiglia. Poi dob­biamo dire che siamo riusciti a correre tutti e tre i grandi giri e anche il Mondiale. Abbiamo dimostrato che il ciclismo è in grado di andare avanti, di non fermarsi nonostante tutto quello che è successo».
La sua Colombia è stata tra i Paesi maggiormente colpiti dal Covid-19: sappiamo che lei sorride sempre, ma ci sono stati dei momenti di sconforto?
«Io sono semplicemente molto umano, sarebbe davvero bello poter sorridere sempre, ma non è così che va la vita. Ci sono stati momenti di tristezza, nei quali ho an­che pianto, abbiamo vissuto periodi veramente drammatici. For­tu­na­ta­men­te ci sono la mia famiglia e tan­te persone intorno a me che mi han­no aiutato capire che la vita è bella e va vissuta. Durante il lockdown ho pensato all’importanza di trascorrere del tempo con i miei familiari. Non facevamo nulla di straordinario, stavamo in­sieme sul divano a guardare la televisione, ho ritrovato la calma del vivere il momento».
La sua famiglia è stata un punto di riferimento importante: quali sono stati gli insegnamenti ai quali fa riferimento an­cora oggi?
«La mia è una famiglia semplice e mi hanno insegnato che proprio nelle cose semplici possiamo trovare qualcosa di meraviglioso. Nella vita non bisogna mai dare nulla per scontato e la mia famiglia mi ha insegnato a far tesoro dei piccoli momenti di gioia».
Abbiamo imparato a conoscerla bene nel 2016, quando al Giro d’Italia ha indossato la maglia rosa. In quella corsa è passato dalla gioia di vincere al sogno svanito. Le capita qualche volta di tornare con la mente a quei momenti e a cercare di trovare possibili errori?
«Non mi piace guardarmi indietro e pensare agli errori commessi. Se ho corso in un determinato modo, vuol dire che in quel preciso momento era la cosa giusta da fare. Se pensi che tornando indietro avresti potuto fare in un modo diverso, in realtà crei solo sofferenza in te stesso. Nessuno di noi ha una macchina del tempo, quindi dobbiamo accettare il nostro passato senza tornarci sopra».
La Colombia sta facendo molti progressi in questi ultimi anni, investendo molto nel ciclismo giovanile. Oggi ci sono 22 corridori nel World Tour e due di questi sono cresciuti nella sua squadra. Cosa puoi dirci di loro?
«Io ho una fondazione che aiuta i giovani colombiani a fare ciclismo, si chiama Fundaciòn Esteban Chaves. Da questo progetto sono usciti Santi Bui­trago, che oggi corre con il team Ba­h­rein Victorious, ed Einer Rubio che corre nella Movistar. Loro sono stati nella mia squadra per tre anni e questi risultati rappresentano un riconoscimento importante per il lavoro che faccio in Colombia. Ho una squadra per juniores e una per allievi e ogni anno in gennaio, ma quest’anno a causa del Covid-19 sarà a febbraio, abbiamo 400-500 ragazzi che da tutto il Paese partecipano alle nostre selezioni e alla fine scegliamo i migliori 18 ragazzi che in­seriamo nella squadra e li aiutiamo a crescere. Sono cinque anni che porto avanti questo progetto e ne sono molto orgoglioso».
Perché ha deciso di creare questa fondazione?
«È una forma di riconoscenza nei confronti del mio Paese e della gente che mi ha aiutato. È un modo di restituire qualcosa a chi mi ha dato tanto. Se io oggi sono diventato un corridore professionista, è stato per merito delle persone che hanno creduto in me e che hanno deciso che dovevano aiutarmi. Io sono in debito con il mondo e con la società ed ora è arrivato il mio turno per ricambiare».
Lei sta aiutando tanti ragazzi: qualche vol­ta la capita di riconoscersi in qualcuno di loro?
«Non posso citarne uno in particolare, perché tutti siamo unici e abbiamo qualcosa di particolare che ci rende differenti. Ma allo stesso tempo penso di ritrovarmi in ognuno di loro. Se penso a Buitrago, penso a un ragazzo che sorride sempre come me e viene anche lui da Bogotà, suo padre fa il falegname, come mio padre. Forse lui è quello che ha più cose in comune di me. C’è un altro ragazzo che fisicamente mi assomiglia molto, perché è piccolino e mol­to magro come ero io, come me aveva meno forza rispetto agli altri. Se guardo uno ad uno questi ragazzi, trovo sempre qualcosa di me quando ero bambino, ma vorrei che loro riuscissero ad andare più lontano di me».
Tornando agli inizi della sua carriera, quanto è stato difficile lasciare la Colom­bia per venire in Italia?
«È stato molto duro all’inizio. Ricordo ancora quel 2012 quando sono arrivato a Bergamo. Non parlavo italiano, facevo fatica a farmi capire dalla gente e faceva tanto freddo. Quel freddo lo ri­cordo ancora oggi, perché mi era veramente entrato dentro. Mi mancava tan­to la mia famiglia, ma a casa di Mario Corti, il fratello di Claudio, ho trovato ve­ramente una famiglia. Con lui ho im­parato anche a cucinare e mi ha insegnato tante cose della cultura italiana. Mi mancava tanto la mia famiglia, ma capivo anche che quella per me era una opportunità importante che non dovevo lasciarmi sfuggire. Stavo migliorando il mio essere ciclista e mi veniva da­ta anche l’opportunità di imparare una nuova lingua e anche una cultura, che alla fine non era poi così diversa dalla mia. Poi avevo la consapevolezza che la mia famiglia era sempre lì e mi aspettava».
Che rapporto ha lei con l’Italia?
«Ho un rapporto veramente speciale con l’Italia e il ciclismo italiano. Dal vostro Paese ho ricevuto gli insegnamenti più importanti. Ho patito il mio incidente, ho affrontato l’immobilità, ma ho fatto anche il recupero da voi, ho sentito per la prima volta il freddo della montagna. Posso dire di aver vissuto nella vostra Italia anche i momenti più belli della mia carriera, ho vinto il Giro di Lombardia, sono salito sul po­dio del Giro d’Italia e poi ho provato la grande emozione di vincere davanti ai miei genitori. Veramente porto sempre il vostro bel Paese nel mio cuore».
Il popolo colombiano è sempre stato presente nelle corse di tutto il mondo, con i suoi canti e i suoi colori. Quando le è man­cato il pubblico sulle strade negli ultimi mesi?
«Noi colombiani riusciamo a farci no­tare facilmente, abbiamo sempre con noi una bandiera che tiriamo fuori al momento opportuno. Mi è mancato il calore della gente perché fa parte della mia cultura, anch’io sono cresciuto in questo modo e ho sentito la mancanza del loro affetto durante le corse».
Quale sarà il suo programma?
«Nel dettaglio non lo abbiamo stabilito, perché non sappiamo come si evolverà la stagione. Partirò con il Cata­lunya, per proseguire poi con i Paesi Baschi e faremo il punto della situazione e decideremo insieme se fare le Ar­denne oppure il Giro d’Italia, o la Vuelta o magari il Tour de France. È ancora presto per decidere».
Quest’anno ci saranno le Olimpiadi, un evento al quale sappiamo che non vuole mancare. Cosa rappresentano per lei i Giochi?
«Per me essere alle Olimpiadi vuol di­re rappresentare il mio Paese in un evento straordinario, il più importante di tutti. È qualcosa che ti dà delle emozioni uniche perché ti senti veramente i colori del tuo Paese addosso e hai l’onore di portarli nel mondo. Speriamo che il Covid ci consenta di poter essere presenti a questo evento».
Esiste una vittoria che ricorda con più af­fetto o un momento della sua carriera al quale è particolarmente legato?
«Esistono due momenti per me veramente speciali: il giorno in cui ho vinto la tappa regina al Giro di California nel 2014 e quando ho vinto la tappa al Gi­ro d’Italia nel 2016. In California sono tornato ad alzare il braccio infortunato all’incidente al Laigueglia: per me era­no stati mesi molto difficili, nessun me­dico si voleva assumere la responsabilità di dirmi che il braccio sarebbe tornato normale e tutti sappiamo quanto le braccia siano importanti per un corridore. Al Giro di California ave­vo di­mostrato a me stesso che, se ti impegni veramente, allora puoi sperare di ottenere il tuo risultato. Al Giro in­ve­ce ero emozionato perché c’erano i miei genitori, l’abbraccio di mia mam­ma lo ri­cordo come qualcosa di irripetibile. Per tutti la mamma è un be­ne uni­co...».
Lei ha subìto un incidente grave e poi ha perso un’amica importante, Diana, morta mentre era in bici in Colombia. Episodi che l’hanno segnata in modo molto pro­fondo. Come è riuscito a superare quei mo­menti?
«Devo dire grazie agli insegnamenti dei miei genitori. Sappiamo che la vita può essere sia molto bella che molto difficile, ma a noi è stata data la possibilità di scegliere: rimanere a piangere su un letto o prendere la vita per le corna e andare avanti. Mio padre mi ha sempre detto che bisogna andare avanti anche se è dura, perché possiamo farcela. Quando ho avuto l’incidente, avrei potuto decidere di rimanere sul letto a disperarmi e non impegnarmi con la fisioterapia, perché i medici non credevano in un mio recupero. Se avessi agito così, oggi non sarei più un ciclista, invece ho reagito ed eccomi qui. Una delle po­che certezze che ho nella vita è che bi­sogna sempre farsi coraggio e rialzarsi».

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