L'amore mancato di Fausto
di Gian Paolo Porreca
È stato chiesto a 20 scrittori appassionati di ciclismo, per «Fausto Coppi. Una vita in più - Gli anni immaginati del Campionissimo», a cura di Gianni Rossi e Gino Cervi, Bolis Edizioni , 2020, euro 14,00 - un racconto su come sarebbe stata, o cosa vi sarebbe potuto accadere, di fantastico e/o imprevisto, la vita a venire di Fausto Coppi. Se non fosse cioè morto così immaturamente, a 40 anni, il 2 gennaio. Il nostro Gian Paolo Porreca ha immaginato, nel testo che segue, un amore segreto, vissuto fra Napoli e Caserta, al suo ritorno in Italia dal Nord Africa, come prigioniero cooperante della RAF... È appena finita la Seconda Guerra Mondiale, il giovane campione Coppi ha solo 25 anni, ed un timido batticuore di futuro. E un amore smarrito che ritroverà incredibilmente a tempo ormai scaduto, e gloria sfinita, al Giro della Campania del 1960.
Per gentile concessione di Bolis edizioni.
E neanche questo, quella sera, tanto diversa dalla precedente, ora lo sapeva bene. Se gli avrebbe fatto più piacere, il viaggio previsto di ritorno a Torino in vagone letto, farselo in una cuccetta doppia, per parlare con qualcuno. E non invece, come gli era stato riservato dagli organizzatori del Mattino, in una singola di prima classe.
E già, noblesse oblige, al rientro a Torino dal “Campania” del 1960, lui in fondo era ancora Coppi, la celebrità del ciclismo, e il “Campania”, anche se l’anno prima si era ritirato, purtuttavia lo aveva vinto, e in quale sublime maniera per due volte consecutive, nel ’54 e nel ’55, diomio come lontano quel tempo, come fuggito, addosso non ne aveva tracce, e in cuore solo il brivido... L’Agerola, il Chiunzi, il Faito, non ricordava più bene, una tratta di autostrada, aveva percorso il mondo a pedali, ma da Pompei all’Arenaccia nel 1955 c’è ancora il laziale Monti ad inseguirlo, vanamente, vana mente.
Da solo, “faccia buon viaggio, signor Coppi”, il congedo dello chauffeur del giornale nell’accompagnarlo fino alla carrozza, “signor Coppi”, non un intimo “Fausto”, da tifoso, esclamativo stentoreo gridato, come quelle altre volte che era sceso a Napoli, con Riccardo Cassero e Gegè Maisto e Gino Palumbo, a tappezzare di rosa le pagine e le strade e i racconti, e i fiori dai balconi versati al suo passaggio, come ad uno sposo che aspetta la bella... Neanche un autografo, o forse già lo aveva.
E di cosa parliamo oltre, se dopo lo scatto della maniglia di ferro del treno, il batticuore lo invadeva, ma stavolta però più unico e irripetibile di sempre, se adesso anche il suo vissuto odierno conosce un tramonto inatteso?
Perché in fondo lui a Napoli, lui che indossa il ruolo del campionissimo, lui che stenta come una controfigura di quelcheerastato a a riprendere un rendimento atletico dignitoso, dopo il recupero lento dalla grave malaria del dicembre scorso, e una ennesima bronchite per la pioggia di una Sanremo nemmeno conclusa, lui con la San Pellegrino - Bartali di cui è considerato simbolo ci era venuto solo per correttezza verso Bartali e per non fare un torto agli appassionati della Campania. Non altro voleva, non altro, in quella smarrita distanza dalle cose che ormai lo vestiva di un abito stinto. In gara Romeo Venturelli, il suo delfino, scrivevano, Pellicciari, Gentina, Zoppas, i gregari.
«Venga, Coppi, ci faccia questo onore, almeno per essere presente, anche se non sarà come atleta al via della corsa e se il vincitore lo premierà il sindaco Achille Lauro ovviamente, sa i ragazzi che si avvicinano al ciclismo quanto tengano al suo nome e alla sua figura ancora”, ancora, le parole del direttore del quotidiano, la massima voce del Sud, Giovanni Ansaldo. Di rappresentanza, sai, per le coppe e il buffetto sulle guance ai ragazzi della riunione di attesa...
Solo, lui, in prima classe, vettura ble notte, gran classe, dame gentili e uomini in giacca e cravatta che lo riconoscevano, dedicandogli un rispettoso cenno di sorriso.
Solo, a sistemare la valigia e gli omaggi della carovana nella cuccetta, troppo grande, e rivedeva il sorriso di quel ragazzino emozionato nel Velodromo, e a pensarci bene allora (se ne convinceva ) gli sarebbe piaciuto di più il ritorno dividerlo con uno dei compagni ciclisti del tempo suo, del suo tempo andato, questo non era più il “suo tempo”, di questo si sentiva ospite, spesso non gradito. Uno, sicuro, come Raphael Geminiani, lo scalatore francese oriundo dell’Emilia, ma siamo un po’ tutti oriundi nella vita, specialmente poi se ciclisti. “E per sentirsi meno oriundi, Fausto, stasera ce ne beviamo due, di Pernod, due a testa voglio dire”, e giù una risata, e sembrava ieri. Dopo quel criterium ad Annecy, Francia, e non era ieri, ma tanti anni fa. E tanto ghiaccio.
Con “Gem” erano stati insieme pure nella tournée sfortunata in Alto Volta quando si era ripreso la malaria, si poteva parlare, e non solo di Bobet e Koblet, si poteva ascoltare, ironicamente scettico, si poteva confidare, anche un amore disperso.
Il materasso era quello che era, e a girarsi non c’era modo di incontrare un’altra figura, un’altra parvenza di vita. Cosa era, e perché continuava da nomade a trascorrere, la condanna della bicicletta, cadere tante volte, tante volte rialzato, più fratture che pelle, quaranta anni passati, quanti Izoard e quanti Zaaf, quanti Nolten e quanti Filippi, quanti Robic e quanti Magni, l’ultima vittoria con Ercole Baldini, bello però, quei 4 secondi agli svizzeri Graf - Vaucher, quattro o cinque secondi, il “Baracchi”, 4 novembre 1957, il giorno della Vittoria. Cosa significare ormai Vittoria?
Il materasso era quello che era, e di Pernod neanche una traccia, né di altro, non aveva sentito da due giorni i figli, né Marina né Faustino, e non aveva voglia alcuna più né di intuire il dolore di Bruna, né di riascoltare il salmo di Giulia. Non fatevi vecchi, dicevano i contadini delle Langhe, e non diventate mai ciechi, come Biagio Cavanna, e non fate due volte lo stesso errore. Coniugare la vita è un modo imperfetto.
Ma era stato perfetto invece lo sprint di quel ragazzino, categoria Esordienti, nella riunione di attesa, prima dell’arrivo del “Campania”.
E questo gli era stato destinato ancora, dalla vita. Non onorare Dino Liviero, che mezz’ora dopo avrebbe vinto in volata, davanti a Gastone Nencini e a Pierino Baffi, no, ma premiare con una coppa meno grande solo del sogno quel ragazzino biondo, “ha visto come è stato bravo il nostro Angelo?”, primo nella velocità esordienti, 15 anni.
E gli era destinato guardare e guardare, quel ragazzino biondo sudato ed emozionato, e la sua maglia arancione. Gesù, Gesù, si scrive con la iniziale maiuscola se si parla di ciclismo e con la minuscola se si parla di altro, Gesù, Gesù, ma quel ragazzino aveva indosso la maglia della “Nulli”, la formazione romana con cui lui - lui, Fausto - aveva ricominciato a correre, al rientro in Italia dopo la prigionia in Nord Africa, quando faceva l’attendente al tenente inglese Towel, al Campo della RAF di Caserta, i primi mesi del ’45.
“Bravo, Angelo, bravo, congratulazioni, sei un campioncino, ma che bella maglia che hai...”. “Grazie, grazie, signor Coppi, è un ricordo di mia madre che non c’è più, lei la teneva gelosamente conservata in un cassetto e qualche anno fa mi raccontò che era la maglia che un giorno le aveva regalato, io ero appena nato, un grande campione che lei aveva per caso conosciuto. E che se veramente volevo vincere in bici certo mi avrebbe portato fortuna”. E lui, lui Fausto, lui che come dicevano tutti - e mai come in quel momento era vero - disceso dalla bici era umilmente laconico, lui a carezzargli il capo e a rispondere commosso come nessuno sul palco poteva comprendere “ma certo, ma certo, le mamme hanno sempre ragione”.
La maglia di lana arancione della “Nulli”, ed era stata una vertigine, quei suoi allenamenti da Ercole, pianoro, a Caserta Vecchia, salita morbida su cui fare potenza, gli piaceva la progressione, da inseguitore e primatista dell’ora, la memoria giovane anche ora in treno come un metronomo, e incrociare il tardo mattino quella ragazza bionda ferma con un carrozzino, sempre lì, malinconica, ad aspettare nessuno, davanti ad un emporio. Sembrava nuovamente ieri, al massimo l’altro ieri, ed è invece tutto il tempo altro a venire rimosso, sempre lì, veniva la primavera del ’45, nella piazza del Duomo di Caserta Vecchia.
Fermarsi un giorno, “buongiorno, la vedo sempre qui, io sono un ciclista del Piemonte, mi chiamo Fausto, Fausto Coppi, e sono qui a Caserta, per la guerra finita”, “buongiorno, io anche sconto la guerra, una guerra non finita, l’ho viva in me, ho perso mio marito sotto le bombe ad El Alamein, e ho questo suo bimbo tutto per me”. “Come si chiama, che bellino, dorme”, “si chiama Angelo”.
Fermarsi ogni giorno, non andava più a Napoli, alla bottega dei Milano, “troppa pianura...”. Avanzava primavera, anche negli occhi suoi, “ha una amorosa al suo paese?”, “sì ce l’ho, o chissà forse ce l’avevo, chissà”, e un po’ sorrideva, guardandola, e ripensando alla promessa di Bruna, a Villavalvernia. “Ma certo che ce l’ha, che l’aspetta, stia tranquillo, noi donne lo sappiamo aspettare, l’amore”.
Si affrettava aprile, si parlava, forse con il “lei”, ed erano ragazzi smarriti con la mano in mano, non altro, forse non toglieva Fausto neppure i guantini, non ne sapeva non ne cercava il cognome, forse Lina il nome, un diminutivo o forse no, i ciottoli di Caserta Vecchia.
Un giorno, “la vedi quanto è bella questa nostra chiesa, vienila a vedere dentro”. Ed entrarono senza parlare, che maestoso spazio, che silenzio, da farsi il segno di croce, quella mattina, lui per mano la bicicletta lei con il carrozzino. E lei gli fece un cenno severo di silenzio con l’indice, vicino ad una colonna austera, e gli mandò un bacio.
La vita affannata andava troppo di fretta, tornare a casa, casa mia, al mondo che era il mondo di prima, lui Fausto aveva solo 25 anni, c’era da riprendere il tempo e il ruolo, anche se un giorno tutti saremo a chiederci a cosa sia servito riprendere il tempo e il ruolo. “Domani parto, ma ti lascio in mio ricordo questo”. Ed aprì la busta che aveva legata sotto la canna, e le spiegò fuori la sua maglia arancione fiammante della “Nulli”. “Sai, con questa tornerò a correre, te la lascio, ne ho un’altra ad Ercole, ti porterà fortuna, e semmai pure al tuo piccolo Angelo”. “Lo sai, non te l’ho detto, ma di primo nome anche io, che sono Fausto per tutti gli altri, sono Angelo, e lo resterò anche per te”. Non ricordava, in quel commiato, un altro bacio.
E gli veniva solo da piangere piano, come quando Darrigade lo aveva sconfitto al Lombardia del ’56, ed il treno del ritorno correva tanto nella notte, da Napoli a Torino, da spegnere le luci delle stazioni, dopo il “Campania” del 1960. Il treno volava quasi, ma a che serve volare se poi la vita, e il suo dolore, e il suo perduto amore, è già arrivata troppe volte prima?