di Francesca Monzone
La lezione è quella che ha imparato da ragazzino quando volava sugli sci: se cadi, la prima cosa da fare è rialzarti, tornare in cima al trampolino e lanciarti di nuovo. Anche se sarebbe più facile sederti, dirti “ci penserò domani” e fermarti lì.
Alzi la mano chi avrebbe avuto la forza di criticare Primoz Roglic se lo sloveno avesse deciso di chiudere il suo 2020 una volta sceso dal podio di Parigi. Solo ventiquattr’ore prima aveva subito una sconfitta tremenda, il crollo di un sogno che sembrava già realtà, la classica mazzata che avrebbe potuto abbattere un toro. Dopo il tracollo clamoroso de la Planche des Belles Filles, con il sorpasso ad opera del giovane connazionale Tadej Pogacar, Roglic avrebbe potuto chiudere l’anno, parlare di pile da ricaricare, di energie da recuperare, di stagione da archiviare comunque con soddisfazione. Ma non lo ha fatto.
Fedele al suo soprannome, l’Aquila di Zasavje ha preso una decisione completamente diversa, se vogliamo anche del tutto inattesa: è risalito subito in cima al trampolino e si è lanciato di nuovo nel vuoto, una volta, un’altra e un’altra ancora. Riprendendosi, a suon di vittorie, il titolo di miglior corridore del mondo.
Per capire, basta lasciar parlare i risultati: una settimana dopo la conclusione del Tour, Primoz ha indossato la maglia della nazionale slovena per disputare il mondiale di Imola, piazzandosi al sesto posto. Ancora una settimana ed eccolo a Liegi per conquistare - anche se in modo rocambolesco, vedi alla voce “volata di Alaphilippe” - una vittoria storica. Due settimane di allenamento e rieccolo alla Vuelta España nei panni di favorito numero uno, pronostico rispettato e secondo trionfo finale consecutivo nella corsa spagnola, condito da quattro vittorie di tappa e dalla conquista della maglia di leader della classifica a punti al termine di una corsa esigente, nervosa e sfiancante che lo ha visto battaglire praticamente tutti i giorni con i suoi avversari diretti per il successo finale, in particolare Richard Carapaz, Hugh Carthy e Daniel Martin.
Rifletteteci bene ancora una volta, perché è il punto chiave della storia: mondiale, Liegi e Vuelta sono arrivati dopo una sconfitta - quella del Tour de France - che più clamorosa non avrebbe potuto essere. Quel sabato di settembre, quando abbiamo visto Roglic e Pogacar sul palco della partenza della crono, in molti siamo rimasti sorpresi dal pallore e dalla tensione sul volto di Primoz, in tanti abbiamo pensato che aveva perso prima ancora di cominciare a correre, ma nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo dopo, quello che avrebbe fatto Roglic.
Attenzione, i successi di ottobre e novembre non cancellano quel che è accaduto in Alsazia: la sconfitta resta e deve essere analizzata e sezionata dal corridore e dalla sua squadra, sicuramente rei di non aver affondato il colpo strada facendo quando Pogacar poteva essere messo in difficoltà e di non aver saputo gestire la pressione a livello psicologico, ma l’impresa del dopo Tour resta.
A 31 anni, li ha compiuti proprio durante la Vuelta il 29 ottobre scorso, Roglic si conferma di gran lunga il numero uno del ranking mondiale, traguardo che aveva già raggiunto lo scorso anno: domina nella graduatoria delle corse a tappe ed è alle soglie della top ten di quella dedicata alle corse di un giorno pur avendone disputate pochissime anche a causa del calendario contingentato per far fronte alla pandemia. Ed il suo bottino avrebbe potuto essere ancora più ricco se non fosse stato costretto al ritiro prima del via della tappa conclusiva del Giro del Delfinato, quando era al comando della generale, a causa dei postumi di una caduta patita il giorno precedente. Una caduta, fra l’altro, che ha tenuto in dubbio per giorni la sua partecipazione al Tour de France, con la riserva sciolta solo alla vigilia della Grande Partenza da Nizza.
«Tadej al Tour è stato più forte e ha vinto meritatamente. Sono rimasto certamente deluso del risultato, ma anche deluso di me stesso. Ho dato il 110 per cento, tutto quello che potevo, ma non sono riuscito a produrre i watt necessari per vincere. Avrei voluto il primo posto, ma mi sono meritato il secondo, per il momento...» aveva detto a Parigi, nel giorno della sconfitta più amara.
«La vittoria del 2019 è stata la prima e per tanto resta davvero speciale, ma anche questa ha un valore molto importante perché è parte della grande stagione che ho vissuto, una stagione nella quale ho ottenuto molto» ha spiegato a Madrid nel giorno del trionfo finale alla Vuelta, parlando sempre con tono misurato.
In queste dichiarazioni c’è tutto Roglic, corridore dannatamente forte ma lontanissimo dall’essere personaggio, diventato suo malgrado idolo di una Slovenia che continua a sfornare campioni dello sport, figli di una scuola e di un progetto di educazione e di vita che dovrebbero essere presi e copiati anche in tanti altri Paesi, compreso il nostro.
Anche la gestione della Vuelta, per Primoz, è stata tutt’altro che semplice: la Jumbo Visma gli ha affiancato in pratica la stessa squadra del Tour ma Tom Dumoulin, pallida ombra di se stesso, si è arreso dopo pochi giorni e anche George Bennett non ha sempre dato il contributo che era lecito aspettarsi da lui. Se ci aggiungiamo poi il disastro della sesta tappa - quando è rimasto da solo e ha perso tempo cercando di infilare una mantellina che non voleva saperne di chiudersi per poi essere costretto a cedere la maglia rossa a Carapaz, ancora una volta una cattiva gestione della situazione con la complicità dell’ammiraglia - possiamo comprendere ancora meglio come le cose non siano state agevoli.
Ma stavolta Roglic ha reagito: in una corsa decisamente atipica, nella quale i big della classifica sono stati chiamati alla ribalta praticamente tutti i giorni, Roglic è andato a caccia di vittorie e di secondi di abbuono che alla fine si sono rivelati decisivi, ha vinto anche l’unica cronometro in programma pur non dando agli avversari i distacchi che pensava, ha gestito la corsa con grande autorità.
E sull’ultima salita della Vuelta, quella che portava al’Alto de la Covatilla, si è difeso molto bene dall’attacco disperato di un Carapaz (onore a lui!) che ha cercato fino all’ultimo metro di ribaltare la situazione, non è andato in affanno, è salito con il suo passo e ha conservato 24 preziosissimi secondi che rappresentano la differenza tra il trionfo e il baratro.
E alla fine, un pensiero per tutti: «Voglio augurare a tutti quanti una buona salute, perché in un anno così difficile questa è la cosa più importante. Ringrazio gli organizzatori per lo straordinario lavoro, nessuno sapeva se saremmo riusciti a portare a termine la corsa e voglio ringraziare anche la squadra che mi ha supportato ogni giorno. Ringrazio la mia famiglia perché se oggi sono qui e sono diventato quello che sono è grazie a loro. In corsa ho dimostrato di essere stato il migliore, nella stagione che si è appena conclusa ho anche perso delle sfide, ma adesso voglio godermi questo successo e poi fare un po’ di vacanza con mia moglie Lore e il nostro piccolo Lev prima di programmare la stagione 2021».
Una stagione nella quale Primoz avrà un solo obiettivo, quello di confermarsi numero uno del mondo. E c’è un solo modo per farlo: vincere. Anche quello che quest’anno gli è sfuggito.