GLI ANNI DELL'INNOCENZA
di Cristiano Gatti
Il fatto è che non ci si può distrarre un attimo, perché subito ci si ritrova in un altro mondo. O forse è solo una percezione mia. Ma mi succede questo: fino all’altro ieri consideravo il nuovo ciclismo una faccenda degli Alaphilippe e dei Van Aert, il tempo di un amen e quasi me li ritrovo già vecchi. Il primo ha 28 anni, il secondo 26, sono chiaramente nel fiore degli anni e della carriera. Eppure.
Eppure siamo qui a dire che l’oggi, non il domani, sono i grandi duelli e le grandi rivalità tra i Pogacar, i Bernal, gli Evenepoel. Il più vecchio - il colombiano - ha 23 anni. E non dico altro. Per noi del ciclismo, dico la gente che lo mastica e lo frequenta da un po' di anni, suona come una solenne eresia. E chi dice il contrario mente a se stesso. Non credo di essere il solo ad aver sentito dire mille volte, dalla scuola ortodossa di questa disciplina, che il giovane va aspettato, che non bisogna bruciarlo subito, che le grandi corse richiedono un lungo periodo di apprendistato per sviluppare una necessaria esperienza, che lo stesso fisico ha bisogno dei suoi tempi di maturazione e di crescita, eccetera, eccetera, eccetera. Abbiamo ancora chiari davanti agli occhi gli esempi più probanti, quell’Indurain che conclude lo svezzamento e diventa qualcuno non prima dei 26 anni, perché devi capirla, non si possono bruciare le tappe, non si possono saltare i passaggi naturali, ci sono fasi necessarie che vanno rispettate in modo naturale. Guarda Saronni, che ha vinto subito: è un’eccezione clamorosa, oltretutto poi la sua carriera è durata relativamente poco. Dai retta, l’età migliore dei ciclisti ormai si sta portando sui trent’anni, nell’attesa non bisogna avere fretta e tanto meno pretendere...
Alla faccia dei tempi giusti e dei passaggi necessari. Tutta questa letteratura, tutto questo sapere consolidato, tutte quante le certezze vanno impacchettate e buttate nell’indifferenziato. Abbiamo davanti l’esatto contrario: Evenepoel che prima di fracassarsi rifila sberle ovunque alla simpatica età dei vent’anni, Bernal che sarebbe il più vecchio e a 22 aveva già un Tour in tasca, Pogacar che addirittura lo migliora vincendo a 21, anche se poi compie i 22 a vittoria appena siglata.
Che dire di fronte a questo fungo atomico di stampo anagrafico? Cosa pensare? Quale conclusione tirare? A me non sembra che serva un grande sferragliare di cervelli per comprendere, ancora una volta, una legge fondamentale della vita, basilare per ogni saggezza, anche se peraltro non ce la ricordiamo mai: qui a questo mondo, ciclismo compreso, l’unica certezza è che non ci sono certezze. Proprio no. La vera soluzione è tenere conto che l’esperienza serve sempre, ma che non può essere un tappo, un tabù, un freno per chi non l’ha ancora per motivi naturali. Di più. È meglio considerare che magari, qualche volta, l’energia vitale, l’entusiasmo, la freschezza possono risultare più incisivi e decisivi dell’esperienza, senza che per questo ci si debba impermalosire.
Alla fine, alla resa dei conti, il più bravo in cattedra non è quello che difende coi denti le proprie certezze, ma chi se ne libera prima, chi è pronto a cogliere subito le belle novità, adattandosi velocemente alle improvvisate della vita. Dire che adesso Pogacar, Bernal, Evenepoel sono i più forti, non significa dire che l’esperienza non serva a niente. Significa semplicemente dire che non serve solo l’esperienza.
E comunque, io non ho difficoltà a riconoscerlo: tra la prevedibile e calibrata ascesa di un trentenne, comunque rispettabile, e l’esplosione imprevedibile e fulminea di un ventenne, personalmente scelgo la seconda. C’è qualcosa, in questi ventenni irresistibili, che mi affascina alla grande. Ragazzini padroni del mondo. Gli anni dell’innocenza che dettano legge e che sconvolgono la tradizione, più forti delle malizie, dei calcoli, delle programmazioni. Una bellezza. L’unico rammarico, inconfessabile: ce ne fosse uno italiano, porca miseria.