GIMONDI E NAPOLI, UN IDILLIO
di Gian Paolo Porreca
Felice Gimondi e Napoli è un incontro di sera a Piazza Amedeo, il cuore della Napoli “bene”, quattro cinque inverni fa, per parlare di un amico corridore belga scomparso drammaticamente, Victor Van Schil. E ricordare in quel momento non la problematica cardiaca da cui lui, lui Felice, era appena serenamente uscito, e che sembrava argomento prioritario per il suo interlocutore, no, niente affatto, ma chiedersi invece, a cercare una ragione insieme, una ragione che non c’era, perché mai l’amico Van Schil, il gregario storico del suo avversario prediletto, Eddy Merckx, avesse deciso di togliersi la vita. “Come fa un uomo che è stato un ciclista, uno a cui bastava una bici per essere felice, a decidere di uccidersi?”.
Quel giorno, a piazza Amedeo, una Napoli bene che l’assedio dei SUV rendeva così così, come tutte le metropoli del mondo quando scende il buio, si avvicinava Natale, era il tempo dell’Avvento, cogliemmo ancora perentoria la gentilezza, la nobiltà d’animo di quel ciclista di nome Felice. Non parlare, con l’amico napoletano medico per giunta, minimamente di lui, ma del dolore altrui. E a Napoli Felice, come in quel Natale, veniva con la moglie Tiziana tutti gli anni, da un’esistenza sacra di amore coniugale. “Sai, amico mio, di questa città sono innamorato, anche se credo di non avervi mai vinto, in tanti anni di carriera”. “Sono innamorato dell’estate sulla costiera amalfitana, di Sorrento, dove incontro sempre Carmine Castellano, ma resto ancora più estasiato per San Gregorio Armeno e per i suoi presepi. Vedi, per mia moglie non vi è una preparazione al Natale senza una puntata anticipata a Napoli, ad ammirare una per una le botteghe artigiane dei presepi, e ce ne torniamo sempre a Bergamo poi, con un cameo vostro, come una coppa emblematica, in più”.
Felice Gimondi a Napoli, ora che non c’è più, quella sera a piazza Amedeo, un Punt e Mes per aperitivo, era la speranza arcisicura di incontrarlo ancora, cosa che non sarebbe mai stata più possibile, e sarebbe ancora rimbalzata nelle stagioni, da un tornante ad un altro di un colle alpino, pulsante l’ammirazione per quella sua figura. “Voglio bene a Napoli e ai napoletani perché mi sembra un mondo di persone vere, come veri sono i ciclisti della mia vita da pellegrino, in bicicletta, per il mondo intero”. Ed era bello, in quel tempo che ormai, dopo la sua fine immatura, ritroviamo oggi ultimo e maledettamente struggente, fare ancora nostra una sua discreta lezione di vita.
“Pensa, amo Napoli come una stazione di posta speciale, una sede di tappa sovrana, quasi religiosa, per me che sono profondamente credente, anche se a Napoli ho vissuto, un giorno di giugno del 1968, la mia più cocente delusione. Te lo ricordi certamente, ma a Napoli si concluse quel Giro d’Italia 1968 che vide la prima vittoria di Merckx e che per me rappresentó, in qualche modo, una sorta di amara presa di coscienza”.
“Capii, a casa vostra, sotto la pioggia di una domenica all’Arenaccia, che la vita anche nel ciclismo non è fatta solo di vittorie. Ma che si impara di più dalle sconfitte”.
E ascoltare quelle parole da Felice Gimondi mi faceva capire - allora come ora - il motivo per cui quando da ragazzi correvamo per le strade di Napoli o di Caserta su bici da corsa, sgangherati, tutti ci chiamavano con lo stesso nome:” forza, vai Gimondi”. Felice Gimondi, a ben vedere, per essere primo per sempre a Napoli, non ha avuto bisogno di vincere nessun Giro della Campania. Primo nel cuore, degli uomini leali, e non sul traguardo.
Primo, senza pensare a lui, o dare corda al suo mito, ancora nel congedo con quella domanda di inizio, “Paolo, ma secondo te perché mai si è tolto la vita il mio amico Van Schil?”.