di Pier Augusto Stagi
Solo la vittoria è bella. Una frase in italiano, tatuata sulla pelle, che ricorda la massima juventina coniata da Giampiero Boniperti, anche se Thibaut Pinot, fantastico vincitore de Il Lombardia, simpatizza per il Milan e tifa per il Paris Saint Germain.
Vittoria transalpina dopo 21 anni (ultimo Laurent Jalabert, ndr), al termine di una corsa spettacolare e intensa, come solo Il Lombardia sa essere, grazie anche a due super atleti, il già menzionato corridore transalpino, e il nostro immenso Vincenzo Nibali.
Pinot ha conquistato la 112a edizione della classica di chiusura, la corsa che lui stesso ha definito a più riprese «la più bella», con la forza e la determinazione dei grandi. Per il francese della Groupama FDJ che adora il nostro Paese e le gare di casa nostra, si è trattato del quinto successo stagionale, il terzo in Italia dopo la classifica generale del Tour of The Alps e la Milano-Torino. Dopo aver seguito Vincenzo Nibali, scattato sul Muro di Sormano all’inseguimento di Primoz Roglic, ed essersi buttato a capofitto in discesa con lo Squalo, Egan Bernal e Primoz Roglic, il transalpino è riuscito a fare la differenza sul Civiglio.
Il capitano del Bahrain Merida, davvero esemplare come i suoi compagni Pellizotti, all’ultima corsa della carriera, Pozzovivo e Ion Izaguirre, si è dovuto accontentare della seconda piazza, ma non ne esce certamente ridimensionato: anzi. Alle sue spalle Dylan Teuns, che ha regolato il gruppo inseguitore cogliendo il terzo gradino del podio.
Ma torniamo all’Italia di Pinot. Pantani è stato il suo primo amore (a otto anni). La Bianchi la sua prima bicicletta (a otto). Il Giro del Friuli, la sua prima corsa con la maglia transalpina della nazionale francese dei dilettanti (a 19 anni), mentre il Giro della Valle d’Aosta la sua prima grande vittoria internazionale, sempre fra i dilettanti. E poi la Settimana Lombarda per la sua prima vittoria fra i professionisti (a 21 anni). «L’Italia, il mio secondo Paese», dice questo ragazzo tosto e generoso, che quest’anno al Giro d’Italia, nella tappa di Cervinia, è finito assiderato e sfinito in ospedale.
È nato a Mélisey, 28 anni fa, e quella per la bici è una passione di famiglia. Hanno corso il padre e il fratello maggiore Julien, che ora lo segue come allenatore.
«La mia prima corsa a otto anni: sono arrivato in fondo. La mia prima vittoria a 10: da solo, perché allo sprint sono negato. Da junior, seguendo il Tour in tv, la folgorazione: diventerò anch’io uno di loro. Anch’io sarò corridore».
Terzo alla Grande Boucle 2014, quella vinta da Vincenzo Nibali, che al Lombardia si è ritrovato tra i pedali e lo ha fatto penare non poco per scrollarselo di dosso sul Civiglio.
«Quando Nibali ha attaccato sul Sormano potevo solo rispondergli - ha spiegato il transalpino -. È lì che ho capito che l’azione era quella giusta e non potevo sognare di meglio: vincere a Como battendo Nibali è davvero il massimo. Sono nella forma della vita, ma vincere davanti a Vincenzo è qualcosa di davvero speciale».
Ama l’Italia e gli italiani e questo amore è contraccambiato. Anche se lui è francese dei Vosgi, l’Italia del pedale lo apprezza da sempre: per il suo modo di correre, sempre generoso e spettacolare.
«Di voi mi piace tutto, fin da quando ero bambino».
E le sue parole si fanno dolci, anche quando spiega la bellezza di una corsa senza tempo.
«Perché mi piace il Lombardia? Perché è l’essenza del ciclismo. Da solo giustifica una vita in bici. Se avessi potuto vincere una corsa sola in tutta la mia vita, avrei scelto questa. Qui mi sento in armonia con la bici, con il percorso, con tutto».
Una corsa che lo esalta, e non lo dice adesso che ha coronato il sogno, ma l’ha sempre ribadiro con chiarezza e in un paio di occasioni ci è arrivato anche maledettamente vicino: sempre battuto da quel Nibali che questa volta è stato capace di domare e staccare.
«È vero, l’azione di Nibali sul Muro di Sormano poteva essere considerata un azzardo, visto che mancavano una cinquantina di chilometri. Ma Vincenzo è un fuoriclasse, un campione di prima grandezza e se si muove lui qualcosa vorrà pur dire. Difatti in pochi gli sono andati dietro. Non so se avrei avuto il coraggio di fare l’azione che ha fatto Nibali, ma a quel punto non c’era altra scelta».
E poi il testa a testa. Le tre accelerazioni sul Civiglio, prima del quarto colpo: quello del KO.
«Sapevo che non potevo permettermi di affrontare una discesa con un pazzo del genere. Lui va in discesa come un drago. Riesce a fare traiettorie incredibili, e per me sarebbe stato troppo rischioso. Dovevo scrollarmelo di dosso, e per farlo ho dovuto dare fondo a tutte le mie energie. Cosa mi ha convinto ad insistere? Quando attaccavo, Nibali poi mi veniva a fianco: mi sono detto, bluffa».
Pinot si gode la corsa dei sogni, anche se il Mondiale di Innsbruck gli resta lì, in gola.
«Ho fatto lealmente quello che mi era stato chiesto. Dovevamo lavorare per Alaphilippe e Bardet. L’ho fatto. Poi però dentro di me è rimasta la voglia di dimostrare che forse si erano sbagliati, perché stavo davvero bene. E il mio finale di stagione è lì a dimostrarlo. Io non sono mai solito portare rancore, ma amo parlare con i fatti, in sella alla mia bicicletta. Se mai diventerò un corridore da classiche? Non lo so, sono solo felice di aver vinto finalmente la mia prima corsa Monumento. Poi sarà la strada a dirmelo. Io ho solo un credo: pedalare forte per vincere. Un po’ come fa Nibali. Che è uno dei miei grandi punti di riferimento. Per questo il Lombardia vinto vale maledettamente di più. Perché la vittoria è bella, ma se vinci contro quelli bravi bravi lo è ancora di più».