di Pier Augusto Stagi
Per anni ne ha stesi tanti, Spartacus Cancellara. Li ha messi a sedere, li ha lasciati senza fiato, con le gambe in croce e la lingua a penzoloni. Ne ha stesi tanti, Fabian, ma ora che si è ritirato si trova a dover stendere anche i panni. «Non sempre, qualche volta, ma ci sta», ci dice lui con quel suo faccione da gigante buono, con un sorriso abbacinante, che per anni è stato il simbolo del ciclismo più machista, gladiatorio e da combattimento che abbiamo ammirato. Spartacus lo chiamavano, perché accettava la sfida, con onore e orgoglio. Non tirava mai indietro il piede, anzi ci aggiungeva una pedalata, delle sue, potenti e ficcanti, che ti lasciava senza fiato, come un pugno nello stomaco.
«È la vita di ognuno, il destino di tutti, anche di chi come me ha avuto la fortuna di diventare quello che sognava di essere un giorno: un campione. Ho sempre adorato la sfida, il confronto e di soddisfazioni me ne sono tolte tante, ma oggi sono a tutti gli effetti un ex, un marito e un padre, al quale tocca fare quello che fanno tutti i mariti e i padri: dare una mano, dopo anni passati a lavorare con le gambe. Quindi, porto a scuola le mie bimbe e vado a riprenderle. Si fanno i compiti con loro e quando il dovere chiama, si fa andare anche la lavatrice e si stendono i panni».
Fabian Cancellara è uno dei più grandi ciclisti della storia, sicuramente uno degli sportivi svizzeri più rappresentativi di tutti i tempi. In carriera ha vinto quattro campionati del mondo a cronometro (2006, 2007, 2009 e 2010), ai quali se ne devono aggiungere altri due conquistati da juniores, ma nel suo palmares ci sono anche due ori olimpici (Pechino 2008 e Rio de Jaineiro 2016), oltre ad una Milano Sanremo (2008), tre Giri delle Fiandre (2010, 2013 e 2014) e tre Parigi-Roubaix (2006, 2010 e 2013), una Tirreno-Adriatico (nel 2008), un Tour de Suisse (nel 2009), otto tappe al Tour de France e tre alla Vuelta a España.
«Mi sarebbe piaciuto vincere anche una tappa al Giro d’Italia e vestire la maglia rosa almeno in una occasione. Ci sono venuto l’ultima volta nel 2016, a 35 anni, ultimo anno da professionista, quando la corsa rosa partiva dall’Olanda (Apeldoorm, vince la crono Dumoulin). Puntavo alla crono iniziale, ma non mi è andata bene: ottenni un ottavo posto, minato dalla febbre e dalla gastroenterite, e mi sono ritirato alla nona tappa. È forse uno dei pochi rimpianti che ho, anche se considero la mia carriera assolutamente appagante. Il Giro d’altra parte l’ho disputato solo tre volte. Il primo nel 2007: mi ricordo ancora la fatica che dovevo fare per tenere davanti Andy Schleck, giovane ma già capitano. Vinse la maglia bianca. Nel 2009, partecipai perché la stagione delle classiche non era stata troppo soddisfacente e grazie al Giro trovai la gamba giusta per vincere il mese dopo il Giro di Svizzera. In entrambi i casi, purtroppo, non sono arrivato alla fine. La maglia rosa? È la più speciale di tutte le maglie che ci sono nel ciclismo. Per il colore, che ti spiazza: è un po’ insolito. Ma bello. Le differenze tra Giro e Tour? La Grande Boucle ormai è più internazionale che francese. Il Giro in questi anni si è molto internazionalizzato, ha avuto un cambio d’immagine importante, ottimo. Ma resta molto italiano. Ed è una fortuna».
Ama l’Italia e gli italiani Fabian, anche perché nelle sue vene scorre sangue lucano: papà Donato ha lasciato la Basilicata per andare a lavorare in Svizzera, ma certe cose non si dimenticano.
«Atella, San Fele, i parenti che ho ancora nella zona - racconta Fabian, che anche ciclisticamente ha avuto una formazione italiana -. A Cerrito, una frazione di San Fele: le mie origini sono proprio lì. Giuliana (11 anni) e Elina (6), le mie figlie, hanno nomi italiani. Ci piacevano. Avessi avuto un maschio, penso che l’avrei chiamato Ivan. Suonano meglio dei nomi svizzeri».
Vive da anni a Ittigen, un sobborgo di Berna, con la moglie Stefanie e le due figlie. Fabian Cancellara non ha appeso la bicicletta al chiodo e non ha perso il gusto della sfida: «Ho corso in bici per vincere, ora vado in bici per vedere la gente felice. Se ci riesco, vinco ancora», ci ha raccontato qualche giorno fa il campione svizzero di passaggio a Milano per illustrare allo Swiss Corner di piazza Cavour la sua nuova avventura, ormai prossima a sbarcare anche in Italia. Challenge the legend - così si chiama l’iniziativa - presenta un calendario di appuntamenti liberi a tutti, grandi e piccini, single e famiglie, articolati in granfondo, prove a squadre e sfide dirette allo stesso Cancellara sotto forma di chasing race.
«Il gruppo parte prima, io parto qualche minuto dopo e inseguo. Non è facile riprenderli...».
Parla con passione ed entusiasmo Spartacus, addentando un panino che si è fatto preparare al volo.
«Da quando ho smesso di correre, non sto fermo un minuto. Fatico a trovare il tempo per uscire in bicicletta, ma ci vado: me lo impongo. Almeno tre volte a settimana, non è tanto, ma è pur sempre qualcosa. In ogni caso, quando sono in crisi mi faccio 40 minuti sui rulli a tutta. Oggi sono molto concentrato sullo studio. Voglio perfezionare le lingue, imparare a gestire una società: non ci si può improvvisare, anche se io sono un uomo fortunato, perché la mia carriera si è svolta tutta all’interno di grandi team, dove ho imparato tanto. Ho incontrato tante persone capaci e preparate e senza queste non sarei diventato quello che sono. La scuola della Mapei è stata davvero un’eccellenza. Il motto che avevamo “vincere assieme” è stato per sempre il mio credo. Il dottor Squinzi, che ogni tanto sento e incontro, è ispirazione continua. Luca Guercilena un amico, oltre che un grande preparatore e oggi manager di assoluto livello».
Fabian è fresco come l’acqua, e scorre via veloce, come i suoi pensieri. Ha voglia di trasmettere quello che ha in mente e nel cuore: e si sente.
«Voglio divertirmi, e stare bene. Ma soprattutto stare con la gente, per restituire quello che mi hanno dato in tanti anni di carriera. Come amico e supporter in Italia avrò Angelo Zomegnan, che porta con sé la sua esperienza ciclistica e organizzativa. Ieri al Giro d’Italia e oggi con la Spartan Race è abituato a gestire eventi di massa».
E ancora: «Il ciclismo a mio parere è un’opportunità per tutti. In Italia l’appuntamento è fissato per l’8 settembre a Follonica. Ho fortemente voluto una prova e una data nel vostro Paese perché da voi c’è cultura ciclistica, c’è passione e ho tanti amici. Io vorrei che questi eventi siano aperti a tutti. Se c’è il papà che corre, perché la moglie o il bimbo piccolo non possono avere la possibilità di fare nel frattempo anche loro qualcosa di divertente?».
Il sogno è anche quello di coinvolgere i big del pedale, i suoi amici: «Ho invitato Chris Froome alla Aigle-Villars sur Ollon, in Svizzera, dove ci misureremo su 80 km di gara. Sono queste le sfide che amo».
Un passo indietro per raccontare come è nata l’idea: «Quando ho smesso di correre, tutti mi chiedevano di partecipare ad una corsa, ad una manifestazione, ad una granfondo. Mi sono chiesto: ma ti piace tutto questo? No. Ma è giusto fare qualcosa per sdebitarsi con chi ti ama? Sì. Allora ho deciso di creare queste manifestazioni. Che non sono semplici corse, sono giornate di sport aperte a tutti. Per stare bene con me stesso e stare bene con tutti».
E poi alcune riflessioni sul ciclismo attuale: «Il Giro? È stata una corsa fantastica. Hanno gareggiato con un uomo in meno per squadra, è diverso. E confesso che dopo la crono ero convinto che Simon Yates avrebbe vinto, invece... a Prato Nevoso ha preso la botta. Ma perdere una grande occasione ti fortifica. È successo anche a me quando persi la Roubaix. Franco Ballerini mi disse: “tranquillo, questa è la benzina che te ne farà vincere tante altre” e così è stato. Froome è stato grande. Un fuoriclasse. Punto. Riuscire a fare quello che ha fatto lui, con il peso di un’inchiesta sulle spalle, significa che è davvero un grande. Guardate, io nel 2008 sono stato attaccato per questioni assurde e ho messo su 10 chili per lo stress e la rabbia. Lui non so come abbia fatto a reggere la pressione».
Un pensiero sul Tour: «Sarà una corsa aperta, senza un favorito d’obbligo. Ci sono Froome, Quintana, Bardet e Nibali che mi sembrano superiori, ma è tutto da vedere. La tappa di 65 chilometri con la partenza a griglie, scaglionata? Per me è pura follia. Il Tour è il Tour, ma non è il caso di esagerare. Loro sono bravi, ma ogni tanto si fanno prendere la mano. Nel ciclismo comandano solo loro, e questo non va bene. Per vincere insieme: questo è il mio motto. Loro, invece, vogliono stravincere da soli: così non va, nuoce a tutto il movimento».
Per concludere, due battute sulle nuove tecnologie: «Tra due anni il freno normale non esisterà più. È il mercato che sceglie e mi sembra che abbia ormai scelto: vuole i freni a disco. La bici elettrica? Per chi ha problemi di salute è l’ideale, ma anche per allenarsi va benissimo. Invece di fare dietro moto, o dietro macchina, si può fare agilità con questo tipo di bici: è il futuro e non puoi farci niente».
L’ultima battuta è una provocazione: sei più giovane di Gigi Buffon e di Valentino Rossi, invece di stendere i panni, hai mai pensato di tornare alle corse?
Ride. E mi manda a stendere.