Rapporti&Relazioni
No alla rucola del pallone

di Giampaolo Ormezzano

Ogni tanto ci capita di assistere alla presentazione di una squadra di ciclismo, ed è sempre una sorpresa: positiva perché ogni volta si tratta di una presentazione diversa, il che denota voglia di far cose nuove; negativa perché gira e rigira il lessico, i modi, le convenzioni «tirano» sempre di più verso il mondo del calcio. Non imitazione scimmiesca, ancora no, ma condiscendenza abbastanza servile. Per esempio si cerca, dicendo dei vari corridori, di identificare i loro ruoli agganciandoli a ruoli calcistici. Tipo: ecco il nostro centravanti di sfondamento, ecco il nostro libero per i recuperi estremi, ecco il nostro mediano di spinta. Sono similitudini facili nonché, chi lo nega?, efficaci, però ci pare di potere e forse dovere dire che non ci piacciono. Il ciclismo vanta una letteratura, una poetica ed anche un lessico che il calcio manco si sogna, che bisogno c’è di andare al traino di certi modi di dire, di certe immagini forzate?
Ma le presentazioni sono sempre più calcisticizzate: persino l’apparizione di un peraltro gentilissimo compresissimo Shevchenko alla celebrazione dei vent’anni dal record dell’ora di Moser in Messico ci è sembrata fasulla, falsa. Il giocatore del Milan ha offerto a Moser una sua maglia, e Moser ha posato con lui per i fotografi, Moser che è tifoso dell’Inter. Boh.

La calcisticizzazione del cerimoniale prevede un animatore che faccia le sue battute, un paio di personaggi dello spettacolo, qualche valletta con abiti interessanti, magari un buffet con salmone affumicato. Noi abbiamo ancora bene in testa, e non vogliamo che nessun vento di nuovismo ce le porti del tutto via, certe celebrazioni-presentazioni di inizio stagione, per fare conoscenza con nuovi corridori o, ancor meglio, per rivedere vecchi amici. Pranzo in trattoria, cibi semplici, buon vino rosso, nessun cocktail aperitivo di succo d’arancio e spumante, bandita la rucola su un po’ tutto, banditissima la panna sui maccheroni. Il capitano e i gregari, non la punta e i centrocampisti. Gli sponsor lì in carne e ossa, non rappresentati dai loro esperti pubblicitari. E se c’era qualcuno del mondo dello spettacolo, aveva da essere tifoso vero, lì per conoscere i ciclisti «dal vivo», non per offrire - ricambiato - un po’ di se stesso alla celebrazione di uno sport.

Èmeglio ricevere alla fine una bottiglia di vino buono che un dossier, un press-kit, una coloratissima cartella-stampa contenuta dentro una cartella di plastica, con quel cattivo odore di nuovo che si sa. Fra l’altro il vino costa molto ma molto di meno.

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E poi ci sembra fortunatamente finito ormai il tempo in cui imitare era regola di sopravvivenza, in cui certe cose si dovevano fare per essere à la page, up to date. Per fortuna l’indigestione di pierre, press release, rosters, palmarés, files eccetera è stata rapida, serrata, si è fatto quel che (forse) bisognava fare, e adesso si riaffaccia la considerazione diciamo pure orgogliosa di una nostra preziosità ciclistica che nasce dall’essere decisamente diversi. La considerazione di essere, noi di questo sport, antiquari, il che non vuol dire certamente antiquati. La considerazione che quelli che sono ad un certo punto apparsi come nostri limiti sono in realtà nostre mura di salvaguardia. La considerazione che noi pratichiamo un mondo sportivo ormai più prezioso che superato, più antiquo che vecchio, più poetante che comiziante, più piccolo che debole, più miniato che piccolo. E che qui stia la nostra forza assoluta, alla faccia della nostra debolezza relativa. La nostra forza senza tempo, alla faccia del non essere adesso di moda, almeno presso la gente di città.

E così, dilatando questo nostro sentire, al ciclismo che bussa a tante porte per trovare spazio nelle città e porsi come alternativa moderna di traffico all’automobilismo della motorizzazione elettrica o di quella a scoppio, preferiamo il ciclismo che va in campagna. Che cerca quella trattoria senza traccia nel menù di cose alla panna e con la rucola. Anzi, senza menù. Esiste, oh se esiste.

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Una volta assistemmo ad un incontro, per la presentazione ad inizio stagione di una squadra ciclistica, appunto, fra il calciatore allora su tutte le meglio vetrine Michel Platini, omaggiato di una bicicletta specialissima per attirarlo lì, ed un vecchio campione belga dal passato grande e dal presente piccino, rosicchiato dal tempo e dai suoi peccati chimici, e raccattato in extremis da quella squadra. Platini, calciatore intelligente, fu gentile, fu signore, l’altro non sapeva cosa dirgli, aveva paura di pretendere troppo alzandosi al livello del grande calciatore, gli offriva due parole di semplice francese, sua seconda lingua, e posava insieme per i fotografi, con un sorriso floscio e moscio.
Fu una scena quasi penosa, «ecco due grandi campioni insieme per voi», diceva un anfitrione, e tutti guardavano Platini e basta. Il quale Platini accarezzava una bicicletta che non avrebbe mai usato, anche per paura di cadere, farsi male e pregiudicare il se stesso calciatore.
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