PROFESSIONISTI | 26/02/2017 | 07:57 Tommeke è pronto all’ultimo atto. Tom Boonen ha deciso: il 9 aprile, al termine della sua amata Parigi Roubaix, chiuderà la sua stellare carriera. Il fenomeno belga della Quick Step Floors - che dal 2002 ha vinto una edizione del campionato del mondo (nel 2005), cinque della E3 Harelbeke (nel 2004, 2005, 2006, 2007 e 2012), tre della Gand-Wevelgem (nel 2004, 2011 e 2012), tre del Giro delle Fiandre (nel 2005, 2006 e 2012), e quattro della Parigi-Roubaix (nel 2005, 2008, 2009 e 2012), totalizzando numerosi successi in altre semiclassiche del pavé, oltre a sei successi di tappa e una classifica a punti al Tour de France, e due tappe alla Vuelta a España - ha iniziato la stagione dall’Argentina dove si è presentato già in forma e “tirato” a puntino. Giusto per far capire ad avversari e tifosi che negli ultimi tre mesi che gli mancano prima di appendere la bici al chiodo vuole lasciare il segno, eccome. Come se le quasi 150 corse che ha vinto da professionista non bastassero. Proprio in stile Tornado Tom.
Visto che continui ad andare così forte, perché hai preso questa decisione? «Ho iniziato ad aver voglia di fare anche altro nella vita, al di là di pedalare e ho intenzione di pianificare il mio futuro. L’anno scorso non ho potuto essere competitivo alle classiche come al solito, perciò ho deciso di continuare ma non per una stagione intera. Sono già 16 anni che sono professionista, ho girato parecchio, stare lontano da casa inizia a pesarmi, i bimbi crescono così in fretta... Ho voglia di stare più tempo con Lore e le gemelle Valentine e Jacqueline. Non sono stufo né di correre né di nient’altro, anzi voglio smettere avendo ancora voglia di bici, perché non è che dall’oggi al domani non ci andrò più. Continuerò ad amarla e sarà sempre la mia vita, ma in modo diverso. Avrei potuto continuare, è vero, ma penso che non sarei più al top, invece il mio sogno è di smettere al massimo livello. Quando il mio procuratore Paul De Geyter mi ha chiesto se volevo continuare un anno alla Quick Step o disputare altre due stagioni con un altro team, io ho scelto di restare ma ho chiesto un contratto solo fino ad aprile. Semplicemente perché è ora di dire basta, lo sento. Arriva per tutti il giorno in cui devi smettere, io ho scelto di farlo al termine della corsa che mi ha visto nascere come campione».
I tuoi tifosi come hanno reagito? «Ovviamente non sono contenti, ma capiscono che non ho più 25 anni... Alla fine dell’anno ne compirò 37, non tutti i giorni sono semplici, anzi più si va avanti più cresce il numero dei giorni no rispetto a quelli sì. In più, per me è importante mettermi in gioco con altre sfide. Durante questi anni mi sono dovuto rialzare almeno un paio di volte (il riferimento è alla dipendenza da cocaina da cui è riuscito a liberarsi dopo la positività del 2009 e agli infortuni degli ultimi tempi, in particolare la caduta all’Abu Dhabi Tour 2015 che gli ha lasciato danni permanenti all’udito, ndr). Ho avuto tanta sfortuna, soprattutto nelle ultime stagioni, ma sono sempre stato in grado di tornare e non dimentico i periodi bui, anche quelli sono serviti a farmi crescere e a diventare l’uomo che sono oggi».
Pensi mai a come sarà arrivare al velodromo di Roubaix sapendo che sarà l’ultima volta? «Non molto, per la verità. Immagino sarà emozionante, non so se lancerò la bici o mi commuoverò, vedremo come andrà. Di certo sarà un gran bel giorno. È strano pensare che tra poco smetterò, ma lo faccio solo nelle grandi occasioni. Ci ho pensato al termine del mio ultimo mondiale a Doha, al primo training camp di quest’anno e al termine della seconda tappa della Vuelta a San Juan perché è stata la prima vittoria del mio ultimo anno. Ho deciso di smettere dopo la Roubaix perché ho più probabilità di arrivare al 110% al periodo delle classiche del Nord, che a me regalano una motivazione extra rispetto ad altri grandi appuntamenti. La Roubaix è la corsa dove sono nato come corridore e dove voglio terminare la mia avventura agonistica, è un simbolo che non ha eguali. Anche il Fiandre è una corsa eccezionale, ma per me non è altrettanto magica. Detto questo, voglio restare concentrato giorno per giorno e ottenere il massimo in ogni corsa».
Hai qualche paura? «Dalle mie parti si dice che “bisogna mangiare il piatto che ti danno”. Può succedere di ammalarsi o cadere, c’è una componente di rischio nel ciclismo che conosciamo tutti, ovviamente spero che in questi mesi vada tutto liscio, ma se non fosse così lo accetterò. La vita non è una linea dritta ma un su e giù continuo. Gareggiare mi piace ancora molto, gli impegni che questo lavoro comporta non mi pesano, mi piace girare il mondo, ma con il tempo sta diventando tutto molto più difficile. Ho tanti progetti in mente anche al di là del ciclismo. Voglio andare a sciare, coltivare la mia passione per i motori, ma anche divertirmi in mtb, fare altre cose... Mi mancheranno soprattutto il tipo di amicizia unica che si crea in un team e la vita speciale da corridore. Il nostro lifestyle, se ci pensate, è il top, si viaggia tanto, si sta in hotel belli, ci si diverte con i compagni... Niente male».
Se vincessi la Roubaix per la quinta volta entreresti nella storia. «Nessuno ne ha mai vinte tante, Roger De Vlaeminck ne ha vinte quattro come il sottoscritto, ma a me non interessano queste statistiche, o meglio non ne faccio una malattia. Tutti parlano della Roubaix, ma anche prima voglio far bene. Dal primo giorno all’ultimo farò del mio meglio in ogni corsa in cui sarò al via, non aspetterò il 9 aprile in fondo al gruppo. Come dicevo, ho scelto questa corsa perché ci sono nato: ricordo la mia prima partecipazione quando vinse Johan Museeuw e io finii terzo. Da lì è iniziato tutto. Ero strafelice per il podio perché alla prima esperienza è tutt’altro che scontato salirci, ma il pensiero dominante che provavo era che avrei potuto fare di più. Ero scontento perché non avevo vinto, non avevo tirato fuori il massimo da me stesso. Avevo già quella voglia di vincere, capito? Amo questa corsa fin da ragazzino, ma dopo quel giorno il desiderio di farla mia si è davvero fatto concreto».
Non contano le statistiche, allora cosa conta? «Per me ciò che importa è essere un buon esempio, essere un’ispirazione per i bambini e non solo. Non conta il palmares, ma come mi comporto, come torno da un infortunio, cosa rappresento per gli altri. Noi atleti non possiamo cambiare il mondo, non siamo così importanti, ma con la nostra visibilità possiamo motivare le persone ad alzarsi dal divano e a spegnere la playstation per uscire in bici e migliorare la loro vita. Se ci riusciamo, è già un successo. Io so di averlo fatto con tanti ragazzini, me lo dicono. Più di uno mi ha raccontato: “lo sai che il primo paio di scarpe che ho comprato erano le Northwave con le strisce iridate che usavi tu?”. Sia che te lo dicano ragazzi che si sono affermati nel professionismo come Kwiatkowski e Sagan o altri che semplicemente si stanno realizzando nella vita, è un orgoglio. I neoprof di oggi fanno parte della generazione che si è avvicinata al ciclismo guardando le corse in cui c’ero io, ne vado fiero».
Alla Vuelta a San Juan ci sei sembrato particolarmente felice. Per uno che ha vinto tanto come te è quasi strano esultare così per una corsa minore. «È vero ma le persone dimenticano molto velocemente, dopo una o due settimane non ricordano cosa hai combinato finora e ti chiedono: “Riuscirai a vincere ancora?”. Anche se hai vinto un centinaio di classiche, sei sempre messo alla prova... Vincere è sempre bello, ripaga del tanto lavoro svolto, anche in una gara di inizio anno. La passione che ho scoperto in Argentina per il ciclismo è paragonabile solo a quella del mio Paese, dove conoscono tutti i corridori, anche quelli non di primo piano, e il ciclismo è religione. Vincere è vincere. Dopo i mondiali ho riposato una decina di giorni, poi sono tornato subito in sella per preparare gli ultimi tre mesi della mia carriera. Non dovendo preparare una stagione intera, ho preferito tenere la forma alta per poi raggiungere l’apice nelle tre settimane a cui punto in particolar modo».
Hai definito i freni a disco la più grande innovazione tecnica di tutti i tempi nel mondo del ciclismo. «Sì e lo ribadisco. Ogni novità nel ciclismo spaventa, era successo con il cambio elettronico, che per la verità non è stato nemmeno un grande cambiamento, dal muovere una levetta si è passati allo schiacciare un bottone, mentre i freni a disco sono indiscutibilmente meglio di quelli tradizionali. Basta pensare che ogni cosa che va veloce ha questi freni... Non capisco la discussione sulla sicurezza: l’asfalto è duro, le bici anche, se cadi ti fai male. Sono più facili da gestire di quelli tradizionali, il feeling in frenata è senz’altro migliore. La maggior parte della gente che li critica non li ha mai provati. Ho visto anche sistemi in fase di sviluppo che renderanno il cambio ruota più veloce e pratico. Possono essere sviluppati in mille modi, gli ingegneri si divertiranno, sono il futuro. Sono orgoglioso di essere il primo professionista ad aver vinto su strada con i freni a disco. Sono fin dall’inizio un grande sostenitore di questo miglioramento».
Se da bambino ti avessero detto che avresti vinto tanto ci avresti creduto? «Neanche per sogno e nemmeno ci avrei creduto una volta arrivato al professionismo. Allora ambivo a vincere una classica, direi che sono riuscito a fare qualcosa in più di quello che speravo (ride, ndr). Sono sempre stato molto cauto con le aspettative e sono davvero grato per quanto ho vinto, ma ho provato sulla mia pelle che è tutto fragile, devi essere grato per i giorni buoni e anche per quelli difficili, perché alla fine a rendere una vittoria eccezionale ci vogliono anche quelli. Sinceramente, ho ottenuto di più di quello che volevo (quando andiamo in stampa il suo palmares conta 126 vittorie in gare UCI, 148 se contiamo anche kermesse e criterium, ndr)».
Il giorno più bello della tua carriera? «La Roubaix 2012. Quel giorno potevo fare qualsiasi cosa e praticamente l’ho fatto (sorride, ndr)».
Quello più duro? «Quando è morto Wouter Weylandt. Mi trovavo in altura con Iljo Keisse, eravamo in un traning camp in Francia, da soli a Font Romeu, sperduti nel nulla. Al termine dell’allenamento, quando rientriamo in appartamento lui riceve una chiamata in cui ci avvertono che Wouter era caduto. Pensando non fosse nulla di grave, mi butto sotto la doccia senza pensarci troppo. Dopo poco mi chiama mia mamma piangendo per chiedermi come sto. Capito cosa era successo, mi si gelò il sangue e ancora adesso a ripensarci mi viene la pelle d’oca. Iljo voleva saltare in macchina e tornare subito a casa, ma eravamo sotto shock e dopo 6 o 7 ore di allenamento non era la scelta più intelligente. Lo convinsi a dormire un po’ e alle 5 del mattino eravamo in viaggio per tornare in Belgio».
Il futuro come te lo immagini? «Non mi vedo in ammiraglia come direttore sportivo, magari come team manager ma non ci ho ancora veramente pensato. Me ne hanno parlato ma è un ruolo che impone tante responsabilità... Vedremo, di certo resterò nell’ambiente e mi godrò la vita con la mia famiglia».
Quale sarà la prima cosa che farai al termine della Roubaix 2017? «La doccia, in bus (sorride, ndr). Le docce della Roubaix sono un posto magico ed è bello sapere che c’è impresso il mio nome più di una volta, ma per comodità mi sono sempre lavato nel bus della squadra. La doccia al velodromo l’ho fatta solo una volta, quando ho disputato la Roubaix da dilettante. Domenica sera andremo a cena con il team, come facciamo sempre, sia in caso di vittoria che di sconfitta. Il giorno dopo mi rilasserò sul divano, a casa, a Mol. Mi riposerò, ma di sicuro non farò bungee jumping».
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