QUARANTA. «Sono riuscito a crescere»

STORIA | 27/02/2016 | 07:14
Lui la sua gioventù l’ha un po’ bruciata, ora insegna ai ragazzini a non scottarsi. Ivan Qua­ranta, 41 anni lombardo di Crema, è stato negli Anni Novanta uno dei pochi velocisti in grado di battere Mario Cipollini. Talento vero, au­tentico, che nelle categorie giovanili ha fatto quello che voleva, ma anche dopo ha proseguito: nel senso che disciplinarlo era quasi impossibile. È passato dalla maglia rosa al buio delle notti bra­ve e della depressione. Agli allenamenti ha sempre preferito le discoteche. Agli allenatori le belle donne. Tan­to genio e molta sregolatezza: era la sua cifra distintiva, tanto da renderlo il James Dean delle due ruote. Oggi, che è un uomo fatto e finito, con un matrimonio alle spalle e un figlio (Samuel, di 14 anni, che corre per il Gs Ossa­nesga di Paladina, ndr) a carico che lo guarda e lo giudica, ha deciso di rimboccarsi le maniche e garantirsi una vita un po’ meno spericolata, a tal pun­to da diventare istruttore, allenatore ed esempio per i giovani ciclisti di domani.

Ivan, alla fine hai messo la testa a po­sto…
«Quello non lo so, ma sicuramente og­gi sono molto più sereno e tranquillo di prima. Certo, mi piace sempre fare qualche bella serata con gli amici, ma non sono più l’Ivan di quando correvo e soffrivo di claustrofobia».

Rimpianti?

«Guarda, nessuno. Molti dicono che io ciclisticamente parlando avrei potuto dare molto di più, invece sono convinto di aver ottenuto anche più di quan­to era nelle mie capacità. Ero un buon pistard, un velocista puro, che aveva uno sprint di 200 metri dirompente. Credo che pochi avrebbero scom­messo sul fatto che io un giorno avrei vinto tappe di oltre 200 chilometri al Giro d’Italia e avrei anche vestito, seppur per un giorno solo, la maglia rosa. Credimi, nessun rimpianto».

Oggi cosa fai di preciso?
«Sono istruttore della scuola pista a Montichiari. Seguo qualcosa come 350 ragazzini delle categorie esordienti, allievi e juniores. Sono anche collaboratore tecnico del Comitato Regionale Lombardo e direttore sportivo dell’Uc Cremasca, la squadra del mio paese: otto allievi e una trentina di giovanissimi».

Sei in mezzo ai ragazzini…
«E anche a tante mamme… No, scherzo, adesso ho messo la testa a posto e ho una bellissima storia d’amore con Claudia, la mia ragazza. Tornando alla considerazione del fatto che sono in mezzo ai ragazzini, a me la cosa piace davvero parecchio. Mi sento utile e an­che portato. Sento di avere la capacità per incontrare la loro attenzione senza pretenderla. Per migliorarmi ho anche seguito dei corsi, sia della regione che dell’università di Bergamo: parlare a degli adolescenti, oggi, non è cosa semplice. Io volevo essere all’altezza del ruolo e mi sembra che i risultati si ve­dano. Mi vengono dietro… ».

Andiamo ancora più indietro: dopo la gloria, la luce si è spenta…
«Quando smetti di correre, non è facile per nessuno. Prima sono in tanti a cercarti, poi di colpo il cellulare non suo­na più, nessuno ti si fila più, ti senti ab­bandonato. Non è stato facile. Per un po’ non ho fatto assolutamente niente, faticavo anche ad alzarmi al mattino dal letto. Frequentavo discoteche con i miei amici Valentino Fois, Gian Luca Grignani, Alessio Tacchi­nar­di, Fa­bri­zio Corona… ciondolavo, mi divertivo. Poi però un bel giorno ho dovuto darci un taglio, così non andava».

Degli amici che tu hai elencato, uno non c’è più: Valentino Fois, ex compagno di squadra morto per overdose.
«Li sbagliammo un po’ tutti, io per pri­mo. Pensavamo che per risolvergli ogni problema fosse sufficiente stargli vicino e rimetterlo in bicicletta, invece per quel tipo di problema occorrono professionisti e strutture. Macché bicicletta, se l’avessimo convinto ad andare in comunità, oggi Valentino sarebbe ancora qui con noi. E la stessa cosa vale per Marco».

Marco chi?
«Marco Pantani. Pensavano la stessa cosa e hanno fatto il suo male…».

Torniamo a te, e al giorno in cui hai deciso di rimboccarti le maniche.
«Ho cominciato a guidare un carroattrezzi del soccorso stradale. Grazie ad Alberto Zambelli, un amico di Ber­gamo, mi sono tirato fuori. Nel ciclismo ho imparato che cadere è molto più facile di quanto si pensi, ma la differenza la fa sempre chi sa risalire in bicicletta. Così ho cominciato a soccorrere chi restava in “panne” con la macchina, ma nella sostanza stavo soccorrendo me stesso. Mi sono tirato su, con umiltà. Ricominciando da zero».

Hai trovato un gancio in mezzo al cielo… parafrasando Claudio Baglioni.
«Io sono più da Roxy Bar alla Vasco Rossi, ma alla fine ho ritrovato me stes­so. Non è stato facile, ma è stata una grande soddisfazione».

Poi cosa è successo?
«Dal soccorso stradale, un giorno ricevo la classica telefonata che ti allunga la vita. Niente di eccezionale, ma anche questo episodio lo considero di importanza vitale. Mi chiama Stefano Pedrinazzi, allora vicepresidente della Cremasca, che  mi chiede se ho voglia di dare una mano alla società: in pratica mi consente di tornare nel mio am­biente. Quello del ciclismo».

Ma riesci a vivere con questi incarichi?
«Sono un po’ squinternato ma non ho gettato alle ortiche tutto quello che mi ero guadagnato da professionista. Ho un centro di estetica a Treviolo in provincia di Bergamo e qualche appartamentino che mi permettono di vivere più che dignitosamente. Poi tra Mon­tichiari, Federazione e la mia società cremasca riesco a racimolare una cifra mensile più che dignitosa. Insomma, io sono felice di quello che sto facendo».

Non sogni di rientrare nel mondo del professionismo?
«Se ti dicessi di no ti direi una bugia, però per il momento sono felice di fare quello che sto facendo. Poi con i professionisti in pratica già ci lavoro. Aiu­to Marco Villa, caro amico nonché tecnico della nazionale della pista. Quan­do è in giro per il mondo per le corse, spesso lo sostituisco a Mon­ti­chiari e seguo la preparazione specifica di qualche “pro”. Magari faccio dietro moto con Elia Viviani o altri atleti che vengono a girare».

Hai guadagnato tanto da professionista?
«Bene, ma non benissimo».

Eppure hai vinto sei tappe al Giro d’I­talia, hai vestito la maglia rosa, hai fatto dire a Cipollini che tu sei l’avversario che più di ogni altro l’ha impensierito: se solo avessi fatto più il corridore…
«Guarda, io sono un tipo particolare però - come ho già detto - so quello che sono. Se mi avessero irreggimentato, messo in clausura, non avrei nemmeno ottenuto quello che alla fine sono riuscito a ottenere. Per me la discoteca e le donne erano un diversivo fondamentale. Non è che io non mi allenassi. In un anno facevo più di 35.000 chilometri in bicicletta, ma avevo bisogno di una valvola di sfogo per rendere al massimo. Cosa vuoi che ti dica, ero un tipo un po’ originale…».

Come sono oggi i tuoi rapporti con Ci­pol­lini?
«Ottimi, lo sono sempre stati, anche perché io ero un suo accanito tifoso. Da ragazzino in camera avevo il suo po­ster. Pensa che dopo la vittoria di Par­ma, ottenuta proprio davanti a Re Leone, qualche giorno più tardi a Bu­sto Arsizio ho chiesto a mio papà Ro­sanno di venire con il poster, così glielo ho fatto autografare. E lui mi disse: “Già da piccolo sognavi un giorno di battermi…”».

Mario è stato il più grande?
«Assolutamente sì, credo che te lo pos­sa dire chiunque, anche Petacchi che è stato immenso pure lui. Sai perché è stato il più grande? Perché ha vinto quando in gruppo c’erano una valanga di velocisti forti: Museeuw, Jalabert, Kirsipuu, Svorada, Zabel, Freire, Pe­tacchi, il sottoscritto, Lom­bardi, Mar­tinello, Baffi, Minali, Zanini, Nelissen, Moncassin, Abdujaparov, Leo­ni, Strazzer, Robbie Mc Ewen, Blijlevens, Baldato… non me li ricordo nemmeno tutti».

Al Giro sei primi, cinque secondi e quattro terzi: mica scherzavi…
«E poi alla sera a festeggiare con la squadra e con il mio ds allora, Stefano Giuliani, quello che mi ha capito di più, quello che mi faceva fare quello che sapeva che mi faceva bene».

La discoteca e la vita notturna come terapia?...
«Diciamo di sì, poi forse ho esagerato».

Chi è oggi il velocista che ti piace di più?
«Marcel Kittel».

Un Cipollini tedesco…
«Meno scrupoloso e continuo di Ma­rio. Ma Marcel è un grande».

E tra gli italiani?
«Elia Viviani. È l’esatto contrario di me. Io ero dotato di un buon motore ma la testa era quella che era, lui ha un motore buono ma non super, ma ha una testa immensa. È un grande».

La testa conta più delle gambe?
«Se hai solo gambe, non vai da nessuna parte. Cipollini era un superuomo, ma aveva una testa pazzesca. Arrivo a dirti anche un’altra cosa. Petacchi forse ave­va anche più motore, in certe tappe te­neva molto meglio di Mario in salita, ma Cipo era pazzesco per autostima e concentrazione. Ti ammazzava con la determinazione ela sua personalità».

Sei il più grande estimatore di Cipol­lini…
«È così».

Tu con i tuoi giovani allievi sei un amico?
«Il difficile è farsi accettare, ma non ho mai commesso l’errore di raccontare chi sono stato o sminuire il risultato di un ragazzino che a questa età deve solo pensare a divertirsi. Per loro il ciclismo deve essere per davvero un gioco, mica sono obbligati a diventare corridori. Se­condo me troppi tecnici sono duri ed esagerati. Ti fanno passare la voglia di correre, io invece me li voglio tenere, per farli crescere pian piano. E spero di essere con loro un tecnico giusto. Complice ma autorevole».

Tra i tuoi ragazzi c’è qualcuno nel quale ti rivedi…
«Per classe e temperamento Daniele Donesan, mi assomiglia molto: genio e sregolatezza. È di Vailate, il paese di Adriano Baffi.  A proposito di Adria­no, un altro ragazzino molto dotato e per questo interessante è suo nipote, Stefano. Ha un motore incredibile, tan­to è vero che si difende piuttosto bene anche in salita. Però sono ancora troppo giovani per poter dire compiutamente se potranno diventare uno dei corridori o no».

Ma tu racconti mai la tua storia di corridore?
«Mai. I ragazzi oggi sanno tutto di tut­ti. Vanno su Internet e c’è poco da stare lì a raccontare. Tanto è vero che ogni tanto, quando li riprendo, loro mi tappano la bocca dicendomi: “mister, ma lei però da ragazzo non era proprio un esempio…”».

E tu?
«Li lascio dire, hanno ragione».

Però sei avvantaggiato: uno come te capisce perfettamente cosa può passare nella testa di un ragazzino adolescente…
«Altro che, io sono riuscito a crescere solo l’altro ieri».

Ma li porti in discoteca dopo una corsa?
«No, sono ancora troppo giovani. Ma tra qualche anno…».

di Pier Augusto Stagi, da tuttoBICI di febbraio
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COMMENTI
Grande Ivan
27 febbraio 2016 12:02 Maverick 71
Ciao Ivan io sono un papa' di un ragazzo che tu hai allenato nella tua Cremasca nell'anno d'oro. Ho solo un rammarico che quel gruppo non è stato portato avanti perché i presupposti per una bella avventura cerano tutti.
Come comunicatore, amico e preparatore dei ragazzi sei un numero 1.

Ciao e GRAZIE DI CUORE da parte mia per quello che hai fatto con mio figlio, anche se lui dopo essere passato di categoria Ha smesso.

Ghepardo
27 febbraio 2016 18:53 Bicitunder
Di velocisti con la sua esplosività e la sua accelerazione ne nasce uno ogni 50 anni. Siamo stati fortunati ad aver visto le sue volate esplosive. Troppo poche purtroppo

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