FROOME. Le scelte di Chris

PROFESSIONISTI | 24/02/2016 | 07:39
Un’ambizione troppo grande per poter essere confessata esplicitamente e il lavoro di ogni giorno, ora, minuto, consacrato a realizzarla. Nella testa di Chris Froome non c’è “soltanto” la maglia gialla del Tour de France, già sua nel 2013 e nel 2015: l’anno olimpico, e una cronometro a dir poco arcigna che sembra disegnata per uno co­me lui (non a caso Tony Martin lo ha indicato come il grande favorito), gli permettono di fare più di un pensiero all’oro a cinque cerchi. Non è impossibile. Anzi: magari si tende a dimenticarlo ma quattro anni fa riuscì. E riuscì a un certo Bradley Wiggins, che di Froome doveva essere - era - connazionale e compagno di squadra, in realtà si detestavano neanche troppo cordialmente. La storia dice: 2012, Wiggo pri­mo a Parigi e poi, una settimana scarsa dopo, oro olimpico a cronometro. Nel 2016 dopo la capitale francese a Froo­me toccherà Rio de Janeiro. Ha già det­to, dal ritiro invernale di Sky a Ma­iorca: «Se devo scegliere, prendo la terza maglia gialla, perché il Tour è il Sacro Graal dei ciclisti». La realtà però racconta di un doppio lavoro per un doppio obbiettivo, reso particolarmente gustoso dalla possibilità di eguagliare l’impresa del grande nemico. A co­minciare dalla scelta del programma, dopo l’esordio d’inizio febbraio all’He­rald Sun Tour, in Australia.

INTENTI. «Ho scelto di correre di meno all’inizio di stagione - spiega Froome, che in autunno è diventato papà di Kellan - per cercare di arrivare più fresco nella fase centrale che è cruciale, con i Giochi dopo il Tour. Penso che in Francia il mio rivale più pericoloso sa­rà Quintana. Avrà 26 anni e sarà più forte di quanto abbiamo visto finora. Poi c’è Contador, che non avrà il Giro d’Italia nella gambe e allora sarà davvero un contendente serio. Mentre il vo­stro Aru, beh, è vero che sarà al debutto ma mi sono già scontrato con lui alla Vuelta. È forte in salita e fortissimo nella testa. Non lo considero un semplice outsider, ma una reale minaccia».
È anche vero che Sky, stante la volontà di diventare indiscutibilmente il team numero uno al mondo, ha completato una campagna acquisti importante, af­fiancando a Froome due come Landa e Kwiatkowski.
«Se c’è spazio per tre stelle così? Ma una squadra come la nostra ne deve avere 20 di stelle. C’è anche Geraint Thomas, che per buona parte dell’ultimo Tour è stato in lotta per il podio. Io e lui nei tre sarebbe stato lo scenario dei sogni. Ci riproveremo. E non temo che possa diventare un problema, quan­to successo con Wiggins (Chris fu secondo nel 2012 al Tour dietro il Ba­ronetto non senza attriti, ndr) non si ripeterà. Il rapporto tra me e G (così in squadra tutti chiamano Thomas, ndr) è diverso».

PAPÀ. E non è da trascurare la motivazione venuta dalla recente paternità: «Sì, è cambiato tutto. Adesso, non si tratta di correre semplicemente per me, i compagni, la squadra. Ora devo avere veramente una ottima ragione per al­lontanarmi da casa e perdermi dei giorni in cui mio figlio cresce».
E anche la psicologia gioca la sua par­te.
«Ho molta più fiducia in me stesso ri­spetto a quella che avevo nel 2014, quando cominciava la mia prima stagione da vincitore in carica del Tour de France. Diciamo che due anni mi sentivo come se avessi il peso del mondo intero sulle mie spalle. Invece stavolta ho due anni in più di esperienza e ho già provato che un Tour non l’ho conquistato per caso, visto che è arrivato il bis. E non credo che il miglior Froome si sia ancora visto. Sento di potere an­cora migliorare in molti aspetti. Per esempio, sulla posizione a cronometro, a cui ho dedicato molto tempo. Ho vissuto un periodo eccitante, come sempre sono i giorni prima di iniziare a correre di nuovo, perché hai voglia di farlo, non vedi l’ora che quel momento succeda».

AMORE. «È il mio amore. La mia vita. La mia passione». Michelle Cound lo ripete come un mantra, quando si tratta di definire in poche parole il rapporto con il marito Chris Froome. Non mol­ti sanno che la Cound, gallese, si era trasferita in Sud Africa con la famiglia quando aveva cinque anni, e so­prattutto che conobbe Froome attraverso la comune amicizia del sudafricano Daryl Impey, allora compagno di Chris alla Barloworld. Fotografa e ma­nager del marito (si sono sposati a sorpresa a fine 2014, ndr), si può dire che sia lei a “portare i pantaloni” in casa, e non si è fatta problemi a di­­fen­dere Froome da polemiche e sospetti: «Ehi giornalisti, il fatto che Lance Arm­strong fosse uno psicopatico non vi dà il diritto di trattare Chris come un punching-ball», disse durante un Tour. La nascita di Kellan, il primogenito, ha inevitabilmente cambiato i ritmi familiari anche se mamma e fi­glioletto hanno di recente seguito almeno una parte dell’allenamento in Au­stralia di papà, prima del debutto stagionale.
«Quan­do ci sono mi piace aiutarla con il bambino - ha detto Froome -, però lei è bravissima e se si tratta di svegliarsi di notte ci pensa lei affinché io possa riposare bene e essere pronto per gli allenamenti».

PROGRAMMAZIONE. Niente è lasciato al caso nella programmazione di Froome. Prendete ad esempio il rinnovo del contratto (scadeva alla fine del 2016, ndr) con Sky, che adesso arriverà fino al 2018 rendendolo un vero e proprio corridore bandiera, visto che Froome è approdato nello squadrone britannico alla nascita, nel 2010. Una cosa non certo comune nel ciclismo contemporaneo. Era scontato che ampliasse la du­rata - lo immaginate forse con una qualsiasi altra maglia? - però il fatto di averlo annunciato a inizio anno toglie ulteriori pensieri alla mente della ma­glia gialla in carica, permettendogli di concentrarsi soltanto sul lavoro. Quan­to alla cifra, secondo fonti bene in­formate si tratterebbe di un record per il ciclismo, visto che Froome guadagnerebbe 4 milioni all’anno non di euro ma di sterline, al cambio oltre 5 milioni di euro. Quindi di più anche di Nibali, Quintana, Con­tador e l’iridato Peter Sagan, cui Oleg Tinkov aveva fatto ponti d’oro quando si era trattato di ingaggiarlo.

La preparazione di Froome non è un monolite. Ci sono dei principi base, uno dei quali è chiaramente lo sfruttamento di una altissima frequenza di pedalata in salita, marchio di fabbrica. Altro è lo studio quasi maniacale del percorso del Tour, anche in loco: Froome aveva pianificato da mesi, e esattamente in quel punto, l’attacco a La Pierre Saint Martin, la salita pirenaica dell’ultima Boucle che gli ha permesso di ac­quisire sui rivali un vantaggio poi rivelatosi decisivo per la maglia gialla di Parigi. Ma a seconda degli impegni, bi­lanciamenti e carichi cambiano. Pren­de­te l’ultimo Tour: nella crono individuale iniziale di Utrecht, quasi 14 km, Froome non era andato particolarmente bene. Solo 39° a 50” dal vincitore Dennis, 7” peggio di Vincenzo Nibali. E di certo non era un problema di for­ma, anzi. Il fatto è che quella era l’unica crono individuale del Tour, e Chris sapeva che non avrebbe particolarmente influenzato la vittoria finale. Così, nel 2015 aveva lavorato molto meno del solito con la bici da crono. In questa stagione, visto l’obiettivo della crono olimpica, la prospettiva cambia e non di poco. Infine, le radici in Sud Africa gli permettono di allenarsi mol­to oltre i 1.800 metri nei dintorni di Johannesburg, e dunque aggiunge na­turalmente giorni di altura a quelli che già fa con la squadra sul vulcano del Teide.

PROSPETTIVA. Balla ancora un’ultima domanda a proposito del keniano bianco: resterà sempre Tour de France-centrico nella sua carriera? Oppure si metterà in gioco in qualche dura corsa di un giorno (vedi Freccia Vallone o Lie­gi-Bastogne-Liegi o Giro di Lom­bar­dia) e soprattutto al Giro d’Italia? La prima occasione sarebbe la corsa rosa 2017, a suo modo storica perché si tratterà dell’edizione numero 100 della gara Gazzetta. E - particolare curioso - il primo Tour vinto da Froome (2013) pure era il numero 100 della serie. «Lo prenderò in considerazione, sarà uno stimolo in più a pensare di partecipare. La doppietta del Giro col Tour e più difficile di quella Giro e Vuelta e anche di quella che comntempla Tour e Vuelta».

La sensazione è che dopo il Tour 2016 la situazione comincerà a chiarirsi: se Froome lo vincesse, potrebbe essere davvero solleticato dalla possibilità di arrivare a 5 ed eguagliare Merckx, Hi­nault, Anquetil e Indurain. A quel punto, “rischierebbe” di fare prima la corsa rosa? Non facile. Se invece non lo vincesse, sarebbe diverso e la cosa potrebbe portarlo a considerare nuove esperienze. «Dipenderà dal percorso, dalle intenzioni della squadra, da tante cose. Ma l’Italia e il Giro sono nel mio cuore». Perché le apparenze possono anche ingannare: Chris programma tut­to - la raccomandazione ai cronisti di lavarsi le mani prima delle interviste per evitare i batteri dice tutto - ma di cuore nei suoi successi ce ne mette dav­vero tanto.

Ciro Scognamiglio, da tuttoBICI di febbraio
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