SKYSPORT. Domnica Basso per «I signori del ciclismo»

TV | 14/11/2015 | 07:49
Domenica 15 novembre, alle ore 23 su Sky Sport 1 HD, appuntamento con “I Signori del Ciclismo”. Protagonista della puntata Ivan Basso.
Seguono alcune anticipazioni dell’intervista esclusiva al ciclista italiano.

Che cos’è il ciclismo.
«Il ciclismo è la mia vita, perché ho 38 anni, ho pedalato per 32, quindi tutta la mia vita in bicicletta è diventato il mio stile di vita, la mia quotidianità, quello che mi ha educato, mi ha fatto migliorare e mi ha fatto diventare sicuramente un uomo migliore. Dalle cose belle alle cose brutte, tutto ha lasciato sempre qualcosa di positivo dentro me».

Il significato delle vittorie del Giro, del Tour.
«Durante la carriera, le vittorie lasciano un segno particolare ma che svanisce velocemente perché la testa ti porta subito all’obiettivo dopo. Nel ciclismo, se tu vinci, devi rivincere e se non vinci, devi cercare di migliorarti per vincere la corsa successiva. Alla fine della mia carriera, la cosa che più mi è rimasta dentro è la sensazione di aver lasciato qualcosa alla gente. Anche se nell’ultimo biennio non ho fatto risultati, però mi sono accorto che non tanto le vittorie o i risultati importanti della mia carriera sono entrati nel cuore della gente, ma un qualcosa di invisibile, perché sento questo affetto costantemente, non ho mai avuto la percezione di essere abbandonato dal pubblico, quindi questa sensazione di affetto è la vittoria più grande. La cosa più bella che resta dopo tanti anni di bicicletta».

L’affetto del pubblico dopo la scoperta del tumore.
«Ho avuto una carriera molto particolare, con un periodo anche molto difficile nella parte centrale, una squalifica dove nel punto più alto, forse nella fase migliore della carriera, mi sono ritrovato in poche ore in una situazione di disagio completo. In quella fase sono stato aiutato, un aiuto che mi è servito molto negli 8 anni successivi, nella seconda parte della mia carriera. E questo affetto, in modo diverso, per una causa diversa, l’ho sentito anche nella malattia, però non ho unito queste cose per arrivare alla decisione di lasciare il ciclismo, il ciclismo l’ho lasciato perché ho sentito nell’ultimo periodo delle sensazioni negative. L’adrenalina, quella sensazione che mi ha portato a fare grandi cose, ha lasciato posto alla paura nell’ultimo periodo. Ci sono degli episodi, nell’ultimo biennio, delle sensazioni che mi hanno un po’ impaurito. Alla fine un corridore non può correre con la paura, la paura è l’ultima cosa che devi avere: se tu hai paura devi abbandonare il ciclismo. Ho avuto anche la fortuna, nella malattia, di usare la bicicletta come strumento di benessere, nell’ultimo mese e mezzo ho usato la bici non più per competere, quindi non più guardando il potenziometro o il cardiofrequenzimetro, ma ho cercato di usarla per ritrovare la mia salute e stare bene. E quindi quando ci sono tante emozioni contrastanti o che si uniscono, ti portano poi a prendere una decisione come quella di smettere per il mio bene, nel rispetto della mia famiglia, della mia squadra, dei tifosi e della bicicletta.

Nei due anni fuori, cosa hai pensato circa la credibilità del ciclismo?
«Io ho detto spesso che sono stato uno che ha portato un grave danno al ciclismo, perché la passione, la voglia di vincere era diventata un’ossessione e questo non può cancellare quello che è stato. Il momento in cui ho toccato il fondo, quando tu sei uno dei corridori più forti e pagati al mondo, ti senti in una situazione non dico di onnipotenza, ma hai una posizione da privilegiato, mi sono trovato in pochi giorni ad avere una situazione di criticità perché la stessa sovraesposizione che avevo in quel momento c’era in negativo: andavi fuori in giardino e passavano le auto e gridavano brutte cose, con moglie e figli, andavi al ristorante e notavi che gli altri tavoli parlavano e indicavano in modo garbato e capivi che dicevano quello. E questa cosa qui mi ha colpito molto e devo dire che quello che io ho fatto gli anni prima e che sono riuscito a trasmettere alle persone, mi ha aiutato perché queste persone non mi hanno voltato le spalle, hanno cercato di recuperare una persona, perché in quel momento bisognava più recuperare l’uomo che non l’atleta, l’atleta veniva poi. Sono stato aiutato e credo che quella sia stata la fase più importante della mia vita privata, perché comunque la storia insegna che se in quelle situazioni non riesci a prendere la mano che ti viene data, puoi avere dei problemi seri: il problema serio non è non tornare più in bicicletta e non tornare più a vincere, il problema serio è che rovini la tua vita. E quindi principalmente i miei amici, le persone più vicine a me, partendo da mia moglie, hanno cercato di farmi ritrovare una serenità come uomo, principalmente. Una volta ritrovata la serenità come uomo, tu hai una data di fine squalifica e in quel periodo devo riconoscere che sono stato molto bravo pure io: ho pensato che per tornare a correre non bastava tornare a correre facendo finta che niente fosse successo, dovevo lentamente ritrovare la credibilità, l’affetto della gente. Tornare a vincere ma tornare a vincere in modo credibile. Quindi mi sono circondato di persone che mi hanno aiutato in questo percorso, come Aldo Sassi e i dirigenti della Liquigas, e abbiamo impostato un percorso di recupero che poi ha avuto un grande successo. Quindi quando parlo della mia storia, nessuno sicuramente può cancellare quella parentesi negativa della mia carriera, è un buco nero che nessuno può togliere, ma se la prendiamo nei 15 anni diventa una bella storia, una bella storia perché è la storia di un atleta che ha sbagliato, ha pagato, ma poi ha saputo recuperare, e rivincere, e ritrovare, non dico il consenso che aveva prima, perché recuperare l’affetto di tutti diventa impossibile, perché il mio errore è stato grave, ma credo che se io dovessi dare un voto al  mio recupero, nella mia seconda parte della carriera sono stato molto bravo perché non era facile e sono stato molto bravo, grazie all’aiuto delle persone che sono state con me e che hanno creduto in me».

Com’è cambiato il ciclismo dai tuoi inizi ai tempi di adesso?
«Il cambiamento, quello che si nota principalmente negli ultimi anni, è che tutte le squadre si sono rinforzate, e per rinforzate non intendo solo per potenziale a livello di corridori. Le squadre importanti e forti sono state capaci di inserire le culture di tutti i paesi perché io ho corso in squadre con tedeschi, francesi, inglesi, belga, olandesi, e ognuno ha una storia da raccontare, un’esperienza da portare. Se uno sa scegliere e porta corridori che portano valore, alla fine questo valore contagia tutti i corridori e il livello della squadra si alza. Quello che ho notato è che negli ultimi anni non ci sono più uno-due-tre corridori forti e tutti gli altri che lavorano per questi tre, ma le squadre sono diventate squadre globali, squadre che fanno due o tre attività e in queste attività devono essere sempre vincenti, devono avere dei leader, ma sotto questi leader ci vuole una squadra forte con un livello medio molto alto».

Gli anni del duello con Armstrong, l’essere considerato il nuovo Armstrong.
«Sì, Lance correva ovviamente con la squadra tutta per lui, ognuno dei suoi compagni che lo precedevano sapeva esattamente quale era il ritmo per mettere in difficoltà tutto il gruppo e poi lui faceva tutta l’azione. Quello era il ciclismo che lentamente si è evoluto e non c’era più un leader unico, o se c’era la squadra cercava di correre in altro modo, cercava di mettere un co-leader che potesse mettere in difficoltà un’altra formazione. Quindi non c’era più uno per squadra, ma arrivavano dei blocchi che per contrastare un corridore forte sapevano che non avevano nell’individualità un atleta che poteva batterlo e quindi cercavano di batterlo usando più pedine».

Hai mai guardato un panorama mentre correvi?
«No. Questa è una domanda importante perché uno dei segnali che mi hanno portato a smettere è che durante la corsa ho cominciato a notare cose che non ho mai notato per tutta la mia carriera, le voci, qualcosa che vedevo, e quando hai questi segnali devi cominciare a riflettere, c’è qualcosa che non va. Però è difficile capirlo e capire perché arrivano questi segnali quando per 15 anni tu corri e l’unica cosa che vedi sono le mappe con i km e il traguardo, tutto in un momento pensi che dietro a quella curva c’è qualcosa, pensi che questo è un posto in cui sei già stato e questi sono segnali che ti devono far riflettere. All’inizio pensi che sia un caso, ma se poi si ripetono, ti dai una spiegazione. Perché a quello si aggiunge qualcos’altro, a quel qualcosa si aggiunge qualcos’altro ancora e alla fine ti trovi che arriva il giorno. Ma quello era un segnale».

Il ciclismo è vero? «Certo. Ho tre figli maschi e una femmina e spero proprio che qualcuno mi chieda un giorno di correre in bicicletta. Mio figlio gioca a calcio ma non ha ancora capito che corre dietro a un pallone per scappare a un destino segnato. Una bici».
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