VALERIO CONTI, l'entusiasta

PROFESSIONISTI | 05/08/2014 | 08:56
«È tutto stupendo, bellissimo, fantastico». «Vorrei correre sempre». «Ho il cuore che batte fortissimo più che per la fatica, che è tanta, per i campioni con cui mi ritrovo a correre». A parlare con l’entusiasmo contagioso di un pupo è Valerio Conti, ven­tunenne romano che, a un futuro da Francesco Totti ha preferito rincorrere una carriera come quella di Alberto Contador. «Da ragazzino ho praticato calcio, ma da sempre mi immagino ci­cli­sta. Nel mondo del pallone senza co­noscenze non si arriva alle serie che contano, nel ciclismo invece è premiato il merito» ci racconta davanti a un caffè al bar durante uno stop di un allenamento di scarico al ritorno dal Giro del Delfinato, con quella genuinità e quella sincerità che solo un ragazzo alle prime esperienze tra i grandi può avere. Lo avevamo scoperto nel 2012 quando vinse l’Oscar tuttoBICI tra gli Junio­res, «quando andavo forte davvero» scherza, lo ritroviamo nella massima categoria con l’entusiasmo del primo giorno di scuola e il carattere di chi sa da dove arriva ma soprattutto dove vuole andare.

Quando hai saputo che ce l’avevi fatta?
«Al secondo anno da Juniores, dopo un test al centro Mapei, firmai un precontratto con la Lampre Merida, ma la certezza assoluta di passare l’ho avuta solo dopo due anni tra i dilettanti con la Mastromarco, quando mi hanno da­to una bicicletta e la maglia blufucsia l’anno scorso per correre come stagista a partire dal Gp Costa degli Etruschi. Che emozione ho provato quel giorno? Un’emozione fantastica, che ricordo bene. Stare insieme a tutti quei campioni che pochi giorni prima vedevo in televisione è stato davvero unico e poi ha vinto il mio compagno di stanza di allora Michele Scarponi, davanti ad al­tri due dei “nostri”, Diego Ulissi e Fi­lip­po Pozzato. Meglio di così che potevo chiedere?».

Come è stato l’impatto con i professionisti?
 «L’inverno scorso non ho potuto prepararmi come si deve e ho dovuto saltare i primi tre mesi di corse a causa di una forte tendinite al ginocchio sinistro. Da un certo punto di vista questo mi ha un po’ penalizzato, ma guardando al bicchiere mezzo pieno ora mi sen­to fresco per la seconda parte di stagione. Ho provato una grande emozione a trovarmi al fianco dei grandi. Al Delfinato c’erano tutti i big che saranno al Tour de France, ero in soglia solo per l’eccitazione di star vicino a loro. Battute a parte, come per la fatica anche lo stupore credo sia solo una questione di abitudine».

Hai ricevuto consigli utili?
«I miei compagni di squadra mi stanno insegnando molto, soprattutto Durasek con il quale divido la camera alle gare. Il modo di correre dei professionisti è totalmente diverso rispetto alle categorie minori, bisogna gestirsi in maniera differente perché i ritmi sono totalmente diversi. Si va più forte e le squadre sono decisamente più organizzate, per arrivare davanti ci vogliono più gambe di quelle che ho io ma in attesa di ma­tu­rare cerco di imparare certi meccanismi. Per esempio, qual è il momento giusto per andare in fuga? Io all’inizio sarei scattato sempre, ci avrei provato anche quando il gruppo viaggiava a 60 km/h in pianura, mentre i miei compagni mi dicevano di aspettare la salita. Io ero a tutta quindi pensavo fosse im­possibile fare la differenza quando la strada diventava ancora più difficile, invece ho visto che avevano ra­gione».

Cosa prevede ora il tuo programma?
«Dopo aver partecipato a entrambe le prove del Campionato Italiano, trascorrerò questo mese a Livigno ad allenarmi. Riprenderò ai primi di agosto con il Tour of Utah. Al momento è in forse la mia partecipazione alla Vuelta a España, mi piacerebbe prendere parte a un grande giro anche se sono consapevole che per un giovane come me non è facile reggere 21 giorni di gara. Non ho corso tanto finora, quindi vorrei recuperare il tempo perso disputando qualsiasi gara, ma tutti mi ripetono giustamente di non avere fretta. So di dover avere pazienza: ho faticato al Del­finato che prevedeva 8 giorni di ga­ra, figuriamoci cosa devono essere 21 filati».

Un giorno su facebook hai scritto: “Le sa­li­te di Pantani e i film di Verdone creano dipendenza”.
«Li rivedrei all’infinito. Ho scritto quel post mentre stavo vedendo un film di Verdone, adoro la sua comicità, e un amico mi aveva mandato un video che ricordava le imprese del Pirata. Stavo vedendo entrambe contemporaneamente, senza riuscire a staccare gli occhi nè dalla tv nè dal pc. I film di Verdone li so a memoria, lo stesso vale per le azioni più famose di Pantani ma non mi stancherò mai di rivederle. Il tempo libero? Lo trascorro con gli ami­ci, come un qualsiasi ragazzo della mia età. Non sono un patito dei social net­work, ma facebook mi piace. Da poco sono sbarcato anche su twitter dopo essere stato “delicatamente” convinto da Mister Pozzato ma devo prenderci ancora confidenza».  

L’aspetto più bello del tuo lavoro?
«È spettacolare perché ci permette di girare il mondo. Una professione normale non dà la possibilità di viaggiare così tanto. Scoprire nuove culture, co­no­scere persone lontane è fantastico. Mi ha colpito molto il Giappone, la gente è cordiale e gentile, ci sono personaggi davvero curiosi che se non fosse per la bici mai avrei incrociato nel­la mia vita. Al Tour of Japan ci siamo divertiti molto».

A chi devi dire grazie per aver realizzato la tua aspirazione?
«In primis alla mia famiglia. A mamma Grazia che è casalinga ed è quella che fa tutto in casa e fuori, a papà Franco che ha un passato da corridore (è stato professionista per 8 anni e da dilettante ha vinto il Giro Baby nel 1976, ndr) ed è sempre via per lavoro, impegnato com’è nell’azienda di zio che si occupa di termoidraulica, e a Marco, mio fratello. Ha cinque anni più di me, ha an­che lui una grande passione per il ciclismo e al momento è disoccupato. Le persone che mi hanno insegnato qualcosa da quando corro in bici sono tante e tutte meriterebbero di essere citate, ne nomino una per tutte: zio Noè, an­che lui ex professionista come papà, che è la persona che concretamente mi ha fatto iniziare a pedalare. Nel 2006 mi portò una bicicletta Bortolotto comprata nel negozio vicino casa con degli scarpini 5 numeri più grandi del mio. All’epoca avevo il 37, le scarpe che ho ereditato da mio cugino erano del 42 (sorride, ndr). Ho iniziato per gioco».

Ricordi la tua prima corsa in assoluto?
«Benissimo. La mia prima uscita fu di 50 chilometri e ricordo come fosse ieri che poi dormii tutto il giorno perché ero cotto. La prima gara da Esordiente di 2° anno a Montelupo Fiorentino, arrivai decimo tra il meravigliato e lo spaventato. Dopo l’arrivo avevo fatto un gran casino perché per me era tutto nuovo, mi era piaciuto correre ma mi sembrava che questo sport fosse troppo rischioso. Stare in gruppo mi faceva un po’ paura, ma è bastato poco per farmi capire che avevo trovato la mia strada».

Non ci sono tanti corridori laziali in gruppo, come mai?
«Abito a Roma, in zona Colle Prene­sti­no, sulla Prenestina che non è proprio il massimo per allenarsi. Il ciclismo dalle mie parti è diffuso soprattutto a li­vello amatoriale, non tra i ragazzi, per il grande traffico e i rischi che comporta. Se nasci a Roma è più facile che i ge­nitori ti portino in un campo da calcio sicuro piuttosto che ti spingano ad andare in bici in strada. A volte mi alleno da solo, più spesso con 3 o 4 amici di 25 anni che escono in bici per passione. Ovviamente non mi alleno in cen­t­ro, ma vado dopo Tivoli, a Roma Est c’è meno traffico. Non posso dire di avere tutti i vantaggi di chi è nato in zone dove il ciclismo è più sviluppato. Credo però che potrebbe essere stato un vantaggio in ottica futura poiché, da solo e con l’aiuto di pochi, sono riuscito a togliermi delle belle soddisfazioni e adesso che sono in un ambiente mol­to professionale posso crescere maggiormente rispetto a chi ha già avuto tutto».

In cosa devi migliorare?
«In tanti aspetti, forse faccio prima a dirti in cosa non devo migliorare piuttosto che il contrario. Senz’altro dovrò fare ancora più attenzione a gestirmi al di fuori delle corse per arrivarci più pre­parato, maturare sia a livello fisico (172 cm per 60 kg le sue misure attuali, ndr) che di testa, a livello tattico. Per questo devo ascoltare i miei compagni, i miei tecnici e chi mi sta attorno. Nella massima categoria si può sba­­gliare poco o niente, o mangi bene, ti alleni bene, dormi bene o diventa du­rissima. Per quanto riguarda la preparazione mi segue Michele Bartoli con il quale mi trovo molto bene. La po­si­zione in bici non è cambiata rispetto alle stagioni scorse, mentre gli allenamenti sono aumentati soprattutto in du­rata».

Da grande ti immagini corridore da corse di un giorno o a tappe?
«Sinceramente non lo so. Per le caratteristiche che ho mostrato dicono che potrei essere adatto alle corse a tappe, nelle categorie giovanili mi sono imposto in gare dure o vallonate, ma a me piace tutto, anche le classiche hanno il loro fascino. Quando a livello fisico sarò maturato in modo completo, vedrò in quale ambito spe­cializzarmi, per ora mi guar­do in giro e cerco di im­parare il più possibile per andare forte in qualsiasi cor­sa. In futuro una vittoria ad un grande giro sarebbe il coronamento di un sogno, ma è presto per pensarci».

Cosa speri per il tuo futuro?
«Intanto di vincere la mia prima corsa da professionista. Quando? Spero en­tro quest’anno o il prossimo. So­gna­vo di arrivare al professionismo e ce l’ho fatta, ma per me inizia ora il vero ciclismo. L’obiettivo per il mo­mento è di crescere con gradualità per pormi poi obiettivi più grandi. Al Giro d’Ita­lia abbiamo visto quanto ormai il livello sia alto e che un giovane, se ha talento, può emergere indipendentemente dall’età».

di Giulia De Maio, da tuttoBICI di luglio
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