ENNIO DORIS. «Il ciclismo? È passione e investimento»

INTERVISTA | 09/04/2014 | 09:03
Per raccontare l’inizio del no­stro incontro con Ennio Do­ris è bene incominciare dalla fine. Cinquantasei minuti d’intervista appassionata e documentata con il presidente di Banca Medio­la­num, uno degli uomini più influenti della finanza del Belpaese che ha mes­so in mostra tutta la sua competenza e conoscenza per uno sport che da sempre lo appassiona.
La sua segretaria è giustamente preoccupata. Entra nello studio presidenziale in punta di piedi, e sussurra al presidente che fuori c’è chi lo aspetta. Lui, cordiale e gentile come è solito essere, invita a pazientare ancora per qualche minuto… È a suo agio, Ennio Doris e noi con lui. Un’ora volata in un lampo. Staremmo volentieri ad ascoltarlo an­cora per ore e a raccogliere i suoi pensieri e le sue opinioni su uno sport che per Ennio Doris resta ed «è un grande amore, ma anche e soprattutto un ottimo investimento».
La fine del nostro incontro è esattamente come l’inizio: cordiale e amichevole. Gli incontri sono come formule chimiche: se tra l’intervistatore e l’intervistato scatta la scintilla il gioco è fatto. Tra noi due la chimica c’è e si sen­te, fin dalla stretta di mano. Mi ac­coglie con il sorriso di chi ha voglia di trascorrere qualche porzione della sua giornata a parlare di ciò che più lo ap­passiona, anche se Ennio Doris ha davvero tante cose che lo interessano: in­nanzitutto la matematica e poi l’astronomia. Insomma, dategli dei numeri e lui vi solleverà il mondo. Per certi versi vi solleverà anche il morale, visto che il presidente è uno che trasmette ot­timismo e positività da ogni poro. Ma lasciamo da parte i preamboli e andiamo al motivo di questa nostra visita: il ciclismo.

Presidente, da dove nasce il suo amore per la bicicletta?
«Da piccino, a 4/5anni. In principio era Bartali, poi scoprii Coppi. Da bimbo mi divertivo con i compagni a fare le gare di ciclismo lungo il greto di un torrente. Preparavamo tanti legnetti piatti piatti e a punta sui quali scrivevamo i nomi dei corridori più importanti. Poi li gettavamo nel torrente e li seguivamo chiassosi fino al punto precedentemente definito: vinceva il titolare del le­gnetto che arrivava giù per pri­mo. Io ero Bartali, ma vinceva sempre quello di un mio amico più grande che aveva Coppi. Io non sapevo nemmeno chi fosse Fausto Coppi. In casa mia sentivo parlare solo di Bartali. I miei cuginetti erano tutti tifosi del campione di Ponte a Ema e quindi, per osmosi, lo ero anch’io. Poi un giorno chiesi lu­mi al babbo. Lui era un grande appassionato di ciclismo e grandissimo tifoso del Campionissimo, e mi spiegò chi era Fausto Coppi: mi aprì un mon­do. Da quel momento in poi la mia passione per Fausto è stata sconfinata. Nes­su­no come lui».

La sua prima bicicletta?
«Una Mondial bianca che riuscii ad ac­quistare con la metà della mia borsa di studio conseguita alle scuole medie. Non ha idea di quanti Giri d’Italia ho vinto con la fantasia».

Ha mai corso?
«No, mai. Non ne avevo la possibilità. Però posso dire di aver corso per pura passione un Giro d’Italia tutto mio. Da Tombolo - il mio paese natale - a Roma e ritorno con i miei amici Livio Reffo e Gianfranco Casson: avevamo 18 anni. La prima tappa Bologna, con il San Lu­ca fatto però a piedi, perché non disponevano di biciclette da corsa con il cam­bio. Poi Bologna-Firenze con il Ra­ticosa e la Futa che non terminava mai. Ad un certo punto, proprio sulla Futa, ci fermammo stremati. La strada era sterrata e gli zaini sulle spalle ci rendevano tutto più difficile. Stravolti per la fatica, decidemmo di recuperare un po’ di forze. Restammo sdraiati per terra almeno un’ora. Poi ci venne incontro  un ragazzino al quale chiedemmo quanto mancasse alla cima. Lui ci disse che mancavano più di quattro chilometri. Allora decidemmo di prendercela ancora comoda e di stare ancora un po’ fermi. Poi, dopo due ore abbondanti di riposo riprendemmo il nostro cammino, questa volta però a piedi. Solo che dopo 50 metri, girata la curva, vedemmo la discesa. Altro che quattro chilometri alla vetta, il ragazzino si era pre­so gioco di noi… Un’altra tappa è stata la Roma-Ascoli: pedalammo anche di notte, e con dei dolori alle gambe e al sedere che ricordo perfettamente ancora oggi. Insomma, fu un’avventura. Ma che soddisfazione…».

Chi prese il posto di Coppi nel suo cuo­re?...
«Nessuno. Coppi è stato Coppi, punto. Poi ho apprezzato Felice Gimondi, che si è trovato sulla sua strada un certo Eddy Merckx, ma secondo me Felice ha sbagliato ad impostare la sua carriera. Ha vinto troppo presto e soprattutto ha corso troppo in età giovanile. Ha bruciato le tappe, ma alla fine non ha bruciato solo quelle. Merckx, invece, ha avuto una crescita più graduale e accorta. La sua maturazione è stata più logica e attenta e alla fine ha dato i suoi frutti».

Dopo Gimondi…
«Moser. Mi sono piaciuti sempre i corridori generosi, che davano battaglia, che si esponevano. Che non si davano mai per vinti. Moser è l’archetipo del corridore indomito. Mi brucia ancora la sua sconfitta mundial al Nurburgring nel ’78, quando fu beffato da Knete­mann».

Cosa non le piace?
«L’approssimazione e mi spiego. Ri­cor­do Gibì Baronchelli, grande corridore, che dopo la famosa tappa delle Tre Ci­me di Lavaredo con Merckx ebbe mo­do di spiegare che il Cannibale l’aveva ripreso in un tratto di falsopiano. E mentre raccontava l’episodio, si rammaricava perché se l’avesse saputo si sarebbe mosso diversamente. “Se sapevo che c’era quel falsopiano, avrei attaccato dopo”, disse testualmente. Ma come, ti stai giocando il Giro d’I­ta­lia contro Merckx e tu non conosci nemmeno la tappa che potrebbe decidere le sorti del tuo Giro e della tua carriera? Queste sono cose che io non ho mai concepito e mai concepirò: l’approssimazione, appunto».

Chi avrebbe potuto battere Merckx?
«Bartali. E lo dico da coppiano. Gino era un fenomeno della natura e, anche se i confronti di questo tipo sono naturalmente impossibili, secondo me se la sa­rebbe giocata anche con il Canni­bale».

Uno scalatore che l’ha entusiasmata?
«Fuente. Secondo me l’unico all’altezza di Coppi e Bartali in salita. Purtroppo tatticamente non era molto astuto. Tan­ta forza e poca testa».

E Gaul?...
«Charly Gaul era fortissimo ma aveva un grave limite. Se sei tirchio, sei destinato a perdere… Se non hai l’intelligenza di capire che si vince anche con le alleanze, non vai da nessuna parte. Gaul, come del resto Chiappucci, avreb­be potuto vincere molto di più».

Da moseriano cosa pensa di Saronni?
«Era furbo come pochi. Sapeva interpretare le corse in modo perfetto, ma era molto poco generoso. Però tanto di cappello».

Dopo Moser chi le ha incatenato il cuore?
«Inizialmente Damiano Cunego. Mi pia­ceva davvero parecchio questo ra­gazzo che era esploso in maniera prepotente e prorompente. Però devo an­che dire che buon profeta fu un nostro collaboratore, che era stato anche un ottimo corridore professionista: Ro­ber­to Conti. In tempi non sospetti, proprio in quel periodo magico, mi preannunciò come sarebbe andata a finire: “Damiano è un grande corridore - mi disse -, ma temo che l’abbiano fatto cor­rere troppo. Questo ragazzo ce l’han­no bruciato. Finito il Giro d’Italia doveva pensare solo a riposarsi. Ad una certa età, non si possono incamerare troppi sforzi”. Ha avuto ragione».

Tra Bugno e Chiappucci?
«Bugno. Classe purissima. Peccato che fosse poco affamato».

Ma se le piacciono i corridori generosi, il suo amore non dovrebbe ricadere per Chiappucci?
«Ma a me oltre ai corridori generosi piacciono quelli che sanno leggere le corse. Chiappucci era sconclusionato».

E Marco Pantani?
«Aveva una qualità straordinaria, che era propria anche di corridori immensi come Bartali e Coppi: il recupero. Però anche per il Pirata ho sempre nutrito delle perplessità per le sue doti tattiche. Certo, il suo modo di intendere il ciclismo era molto spettacolare, ma lo trovavo poco accorto. Insomma, mi pia­ceva ma non mi ha mai conquistato totalmente».

Perché il ciclismo e soprattutto la maglia degli scalatori per promuovere la vostra banca?
«Contrariamente a quanto si possa pensare, la decisione è stata presa dal mio ufficio marketing e io ho accolto la loro decisione con grandissimo entusiasmo. Noi siamo una banca senza sportelli e il ciclismo, e in particolare il Giro d’Italia, ci porta a contatto con i nostri clienti o potenziali tali. La ma­glia del gran premio della montagna è un’immagine. Un vero e proprio archetipo. L’altimetria di una corsa è il grafico perfetto dell’andamento di borsa. È la fotografia dei mercati finanziari. Ci sono le salite e le discese. Ci sono mo­menti in cui bisogna spingere e altri in cui bisogna raccogliere le forze e tirare il fiato. Nei mercati finanziari il mo­mento difficile è la discesa, nel ciclismo è la salita. Ma anche nel ciclismo, se non sai andare in discesa non vai da nessuna parte. Perché non la maglia ro­sa? Perché l’immaginario collettivo ama lo scalatore. Noi cerchiamo chi ha la forza di fare l’impresa e queste si fanno solo in salita».

Perché da due anni si è scelto l’azzurro anziché il verde?
«Perché l’azzurro è il colore del nostro Paese. Gli azzurri chi sono? Gli atleti che difendono nel mondo dello sport la nostra nazione. Ecco la ragione dell’azzurro. Che è poi anche il nostro colore».

Nibali le piace?
«Non lo considero un fuoriclasse ma un grande corridore sì. Mi piace molto, perché è generoso, tosto e tenace. E lo trovo anche molto intelligente. Di­cia­mo che lo seguo sempre con grande interesse e mi piace il suo modo di in­terpretare e leggere le corse».

Non ha mai pensato di sponsorizzare una squadra tutta sua?
«No, a me piace molto sponsorizzare il ciclismo nel suo insieme. Noi investiamo nel ciclismo e nel Giro d’Italia: en­trambe le cose hanno un perché».

Lei, con il suo Gruppo, ha sponsorizzato anche il Milan negli anni d’oro…
«Direi nei suoi anni migliori, quelli di Arrigo Sacchi e degli olandesi, nei qua­li ha vinto di più… È meglio che non lo ricordi a Silvio (Berlusconi, ndr) perché altrimenti mi richiede una sponsorizzazione. Il Milan è una squadra in­ter­nazionale, mentre noi siamo al mo­mento una realtà presente in tre Paesi (Italia, Spagna e Germania): quando diventeremo una realtà globale, allora potremmo tornare a valutare la cosa».

L’obiettivo è quello?
«Sì».

Ma anche il ciclismo ha una sua logica commerciale globale: la Mapei insegna…
«Infatti è da tenere in considerazione. Anzi, come le ho già detto il ciclismo ha un vantaggio: ci porta a contatto con i nostri clienti. Avendo creato vent’anni fa una banca senza sportelli noi avevamo e abbiamo bisogno di uno strumento che ci aiutasse ad intercettare la no­stra clientela: il ciclismo è perfetto. Quan­do intrapresi la mia attività, molti non comprendevano a fondo il progetto e mi davano del matto, adesso tutti si rendono conto che l’idea era giusta. Vedrete quanti sportelli scompariranno nei prossimi anni, la valanga non è an­cora partita. Lei vedrà cosa succederà nel prossimo decennio e quanti sportelli scompariranno: almeno il 90%. Man mano che cresceranno le generazioni dei nativi digitali, quelli che non metteranno mai piede in una banca, e guarderanno ad uno sportello di banca come noi guardiamo una carrozza trainata da cavalli, il nostro format di banca prenderà sempre più piede».

Fino a quando pensate di restare nel ciclismo?
«Sicuramente fino al 2015, ma l’intenzione è restarci ancora a lungo».

I testimonial di Banca Mediolanum li ha scelti lei?
«No, sempre il mio ufficio marketing, ma devo dire che ha scelto molto bene. Gian­ni Motta, Francesco Moser, Mau­rizio Fondriest e Paolo Bettini: grandi corridori, per un grande progetto. Sa quanti eventi in un anno organizziamo compreso il Giro d’Italia? Più di 8.200. Il nostro segreto? Avere 4.500 family banker che si danno un gran da fare e sono in stretto contatto con il nostro marketing. È un effetto domino coordinato da noi. Organizziamo eventi di tutti i tipi, dalla cosa più ambiziosa alla semplice bicchierata tra amici in piazza. Noi durante il Giro, in ogni tappa, invitiamo i nostri clienti appassionati e li facciamo pedalare vestiti di tutto punto sulle strade del Giro con i nostri campioni testimonial».

Lei oggi va in bicicletta?
«Oggi pochissimo».

Cosa pensa della piaga del doping che condiziona non poco il nostro sport?
«C’è un problema di comunicazione e d’immagine. Il ciclismo è lo sport che fa l’antidoping più serio che ci pos­sa essere in ambito sportivo e nessuno ne tiene conto: c’è chiaramente qualcosa che non torna nella comunicazione. In più, va detta un’altra cosa: nell’atletica un grande campione quante maratone può fare in un anno? Due o tre, non di più. Nel ciclismo le cor­se a tappe sono delle vere e proprie maratone, e i corridori sono chiamati a farne una quantità industriale. Le stesse classiche, quelle monumento, sono da considerare delle maratone. Non è una giustificazione, ma è comprensibile e va messo in con­to che gli atleti ricorrano a degli aiuti. Ma è altresì vero che il ciclismo in ma­teria di antidoping è all’avanguardia e si distingue. Si espone. Andrebbe pre­so ad esempio da tutti e non messo all’indice».

Ma lei è tra quelli che pensa che le corse debbano essere meno dure?
«Assolutamente no. Il ciclismo è uno sport di fondo e tale deve restare. Bi­sogna semplicemente fare quello che si sta già facendo: lotta dura con chi bara. Punto».

Il paese sta soffrendo, la crisi sta mettendo in ginocchio parecchie famiglie: cosa si sente di dire?
«Bisogna approfittare della crisi. È nei momenti difficili che si trovano grandi opportunità. Le famiglie italiane hanno una grande propensione al risparmio. Meglio di noi, solo le famiglie austriache. Le famiglie italiane hanno molte risorse, e noi come Banca abbiamo ot­timi consulenti finanziari che possono dare quelle risposte che le famiglie italiane vanno cercando. Vale anche per il ciclismo: è il momento giusto per investire».

Il ciclismo è una metafora della vita: strade e momenti da sfruttare con tempismo e destrezza. Lei quando si è accorto di aver svoltato?
«Ci sono diversi momenti importanti nella vita di un uomo. Anch’io ne ho più d’uno. Ho 10 anni e mi ammalo di nefrite. Resto a casa da scuola un anno, ma essendo bravo mi promuovono lo stesso. A 11 anni - a quei tempi - si andava a lavorare. Il destino vuole però che io possa avere la possibilità di fare anche le medie. E io sono talmente sveglio e bravo che vinco immediatamente le borse di studio che permettono ai miei genitori di farmi studiare senza gravare sui conti di famiglia. È la svolta: lo studio entra nel mio destino. Fac­cio ragioneria e mi distinguo come studente modello. Non solo imparo al vo­lo, ma rivendo anche i libri come nuo­vi. Mi basta stare attento in classe e imparo senza far fatica: i libri nemmeno li apro. Per me la matematica era un gioco, l’astronomia anche: i numeri un universo che io ho sempre trovato ami­co. È in quel periodo che la mia insegnante di matematica comincia a farmi pressione: Ennio, tu devi fare l’Uni­ver­sità, ti do una mano io. Arrivò a promettermi che mi avrebbe mandato tutti i ragazzi che necessitavano di ripetizioni e in quel modo - secondo lei - sarei stato in grado di pagarmi gli studi. Io rifiutai. Ero certo che quei soldi non sarebbero stati sufficienti. Mia sorella all’epoca faceva la camiciaia e lavorava 14 ore al giorno. Mio padre faceva il mediatore di bestiame. Mamma la ca­salinga. Non potevo permettermi di sbagliare: mi misi in gioco e andai a lavorare per dare una mano a chi mi aveva permesso di studiare. Così entro in Antoveneta come ragioniere».

Poi cosa succede…
«Lavoro sodo, ma sento anche che dentro di me c’è la voglia di fare qualcosa di più e di diverso. Un altro mo­mento importante della mia vita risale alla primavera del 1969. All’epoca il mio titolare, Gianni Marchiorello, ricopriva an­che la carica di presidente dell’Asso­cia­zio­ne industriali di Padova e un bel giorno mi invita ad andare all’assemblea degli azionisti della Banca Antoniana. Arrivo puntuale all’appuntamento con la mia Fiat 850 sgangherata, 120 mila chilometri, tappetini rigorosamente di plastica e motore che sentivi anche a di­stanza di chilometri. Marchiorello mi aspetta invece sulla sua bellissima Ci­troen Pallas, il famoso “squalo”. Salgo sul sedile posteriore, dietro al guidatore, abbasso la testa per vedere la mo­quette in cui stavano sprofondando i miei piedi, osservo poi il sedile dell’autista paragonabile ad un trono e il salottino in cui ero seduto. Accende il mo­tore e le so­spensioni idrauliche si alzano. Voglio anch’io una macchina così… pensai.  Fu esattamente in quel mo­mento che capii che non po­tevo far guidare la mia vi­ta ad altri, ma avrei dovuto fare in modo che a guidare la mia vita fossi solo e soltanto io. La vocazione era fare l’imprenditore e prendere in mano il volante. Il problema è che i sei mesi successivi per me sono stati strazianti: ero avvolto da una tristezza infinita perché non sa­pevo cosa fare. Ero un ragioniere senza un patrimonio e un’esperienza specifica e non sapevo dove sbattere la testa per fare un salto di quali­tà».

Poi arriva un amico…
«Esattamente. Sei mesi dopo questo av­venimento, nell’ottobre del 1969, un mio ex compagno di scuola mi propose di entrare in Fideuram, che a quel tem­po vendeva fondi comuni. Si veniva pa­gati a provvigione. Parola magica: provvigione. Questo aspetto mi colpì im­mediatamente perché i guadagni di­pendevano solo e soltanto da me stesso. Ma non è finita qui, anzi, siamo solo all’inizio».

Vada pure avanti, sono tutto orecchie…
«Una sera andai da un falegname che mi diede un assegno di 10 milioni di lire e mi disse: “Signor Doris, sa cosa le ho dato?”. Certo che lo so, mi ha dato un assegno da 10 milioni, risposi. “No si sbaglia. Lei non ha capito, io le ho dato questi…”, e mi mostrò i calli che tornivano le sue mani. “Io le ho dato tutto, la mia vita. Sappia che io non posso per­mettermi nulla, nemmeno di ammalarmi”. Quelle parole mi colpirono pro­fondamente e come una freccia trapassarono il mio cuore. Tornai a casa triste e mi vennero alla mente le parole che ci dicevano in azienda: noi siamo i medici del risparmio. Ma subito dopo mi tornavano alla mente le parole di quel falegname. Ma quale medico del risparmio sono, se i miei clienti non hanno la possibilità nemmeno di ammalarsi? Ma che diamine di medico sono? Un medico non ci mette quindici anni per curare un malato. Infatti se avesse sottoscritto una polizza infortuni e malattie da un milione e mezzo, il falegname avrebbe potuto ammalarsi anche il giorno dopo. Avrebbe risparmiato otto milioni e mezzo anziché dieci, ma avrebbe vissuto senza preoccupazioni. Grazie a quell’incontro, compresi che era necessario abbattere tutte le divisioni esistenti tra banche, assicurazioni e società finanziarie: ognuno in contrapposizione agli altri. Da quell’incontro mi sono detto: voglio avere successo non perché sono bravo a vendere, ma perché sono bravo a ri­solvere i problemi delle persone. L’uo­vo di Co­lom­bo: avere a disposizione tutti i prodotti».

Facile da dirsi, un po’ meno da farsi.
«Difatti mi sono dato da fare come po­chi, lavorando anche 18 ore al giorno e arrivando ad accumulare un capitale sufficiente per aprire una mia attività. Poi un bel giorno leggo un’intervista di Silvio Berlusconi su Capital: era il 1981. “Se qualcuno ha un’idea e vuole diventare imprenditore, mi venga a trovare. Se l’idea è buona ci lavoriamo insieme”. Il mese dopo me lo ritrovo per caso a Portofino. Erano le 18 di un giovedì. Non mi faccio sfuggire l’occasione di parlare con il cavaliere. «Sono Ennio Doris, lavoro per la Dival del Gruppo Ras, raccolgo dieci miliardi al mese di risparmio ma se avessi un im­prenditore come lei che ci mette a di­sposizione gli strumenti immobiliari potremmo fare di più. Lui mi ha fatto tre domande dimostrando di conoscere meglio di me il settore, una cosa incredibile. In quel periodo io gestivo più o meno 800 promotori e soprattutto guadagnavo 100 milioni al mese. Seppi so­lo in seguito che Berlusconi si era guardato attorno per trovare uomini in grado di realizzare il progetto che gli avevo sottoposto. Il problema è che tutti avevano fatto una questione di prezzo, meno il sottoscritto. Berlusconi in quel periodo aveva costruito a Lac­chiarella, un centro di commercio all’ingrosso con valore notevole. Andò a Lugano per incontrare Bagnasco, proprietario del fondo Europrogram­me, col fine di vendere il centro appena costruito. L’affare non incontrò l’interesse degli svizzeri, ma tornando da Lugano disse ai suoi collaboratori di non preoccuparsi perché aveva conosciuto una persona adatta a creare una struttura di vendita che avrebbe risolto il problema: ero io. All’inizio il mio stipendio fu un decimo di quello precedente. L’obiettivo era diventare i numeri uno e ci mettemmo d’accordo con una stretta di mano. Fu così che il 2 feb­braio del 1982 fondammo Pro­gram­ma Italia, per metà mia e per metà di Fininvest. Quella data è per me molto significativa, perché è il giorno della nascita di mia madre».
Insomma, una gran bella sfida vinta a mani basse…
«No, la nostra sfida si vince tutti i giorni. La nostra è una corsa fatta di tappe da vincere e Giri da conquistare. Le gare non finiscono mai. La concorrenza si attrezza. Noi siamo ben messi, ma dobbiamo continuare ad esser animati dalla voglia di vincere. È proprio come i corridori, che non sono mai sazi. Lo­ro devono appagare il proprio ego e quello dei loro tifosi. Noi le nostre ambizioni e i desideri dei nostri correntisti. Il ciclismo, come ha detto lei giustamente, è una bella metafora della vita. Dob­bia­mo solo continuare a pedalare, per re­stare in equilibrio e andare sempre più avanti».
Chi sarà, ciclisticamente parlando, l’uomo dell’anno?
«Io spero Nibali. Vorrei che quest’anno tornasse dalla Francia con la maglia gialla e il prossimo venisse al Giro per ri­vin­cerlo. Vincenzo è il volto del­l’Ita­lia che non ha paura di rischiare e si mette in gio­co. Noi tutti dob­biamo fare come Vin­cen­zo: basta la­men­tarsi. Fac­ciamo qualcosa tutti as­sieme. Que­sto è il mo­mento giusto per investire. An­che nel ciclismo».
Presidente, la sua segretaria ci ricorda che fuori c’è chi l’aspetta, il nostro tempo a disposizione, purtroppo, è terminato… Un ultimo messaggio per gli appassionati di ciclismo.
«Usate il cuore e la testa. Abbiate passione e fiducia in un mondo migliore. Usate il casco quando pedalate. Ab­biate lungimiranza per investire e l’intelligenza e l’accortezza di non far­vi investire».

di Pier Augusto Stagi, da tuttoBICI di marzo
Copyright © TBW
COMMENTI
FINALMENTE L'INTERVISTA ALLA PERSONA GIUSTA
9 aprile 2014 12:15 Cristallo
Il Signor DORIS è una persona squisita e molto intelligente. Sa guardare avanti e con fiducia.
Spero che molti degli imprenditori che leggeranno questa intervista e che vorrebbero sponsorizzare prendano la palla al balzo.
Il ciclismo ha bisogno di loro, e loro del ciclismo per farsi conoscere nel mondo.

Hai dimenticato i tuoi dati, clicca qui.
Se non sei registrato clicca qui.
TBRADIO

00:00
00:00
Si è conclusa la quarta edizione di Beking, iniziata con la pioggia, e proseguita sotto un cielo coperto e minaccioso ma l’evento ha saputo entusiasmare e coinvolgere anche quest'anno. Il vincitore assoluto è stato il campione del mondo in carica...


Momento di ottima forma per Eli Iserbyt che al successo di ieri a Kortrijk, concede la replica nella odierna prima prova della Coppa del Mondo di Ciclocross per la categoria elite che oggi è si è disputata ad Anversa, in...


Un'occasione da non perdere per imparare, curiosare, scoprire, divertirsi e festeggiare. L'evento annuale Openhouse XPC 2024 andato oggi in scena a Reggio Emilia nella sede di Beltrami TSA ha dato la possibilità a tanti appassionati di due ruote di scoprire...


Con la sua celebre scalinata, trampolino di lancio di grandi campioni come Renato Longo, Franco Vagneur, Roger De Vlaeminck, Luigi Malabrocca e molti altri specialisti del fango, si è tenuta oggi la 63sima edizione del Ciclocross di Solbiate Olona (disputato...


Sventola l'iride di Fem Van Empel nella prima prova della Coppa del Mondo di Ciclocross per la categoria donne elite che oggi è andata in scena ad Anversa, in Belgio. Già prima ieri a Kortrijk nell'Urban Cross, la campionessa del...


È scomparso in Costa Azzurra, all’età di 82 anni, l’ex corridore francese Jean Jourden che, nel 1961, ha rivestito la maglia di campione del mondo nella gara dei dilettanti su strada di Berna, in Svizzera. Era nato a Saint Brieuc,...


In quale modo i soldi del ciclismo su strada potrebbero arrivare  alle discipline meno mediatiche e con meno sponsor? Secondo l’UCI un ottimo sistema sarebbe quello di sommare per le classifiche mondiali i punti conquistati in tutte le discipline. In...


Alla Notte degli Oscar tuttoBICI 2024 respireremo profumo di azzurro. Marco Villa verrà premiato come tecnico dell'anno con l'Oscar tuttoBICI Gran Premio Fondazione Iseni y Nervi. Il CT della nazionale pista ha preceduto un suo... collega, vale a dire il commissario tecnico...


Giglio d’oro. Martedì scorso, all’osteria ristorante Carmagnini del ‘500, a Calenzano. Premi e premiati, selezionatori e appassionati, una festa del ciclismo. A tavola, con Roberto Poggiali. Fra crostini e straccetti, ricordi e racconti – i suoi - di quel ciclismo...


La UCI Track Champions League del 2024 è iniziata col botto a Saint-Quentin-en-Yvelines: quasi 4.000 spettatori hanno osservato con stupore Katie Archibald (Gran Bretagna), Dylan Bibic (Canada), Emma Finucane (Gran Bretagna) e Matthew Richardson (Gran Bretagna) indossare le ambite maglie...


TBRADIO

-

00:00
00:00





DIGITAL EDITION
Prima Pagina Edizioni s.r.l. - Via Inama 7 - 20133 Milano - P.I. 11980460155




Editoriale Rapporti & Relazioni Gatti & Misfatti I Dubbi Scripta Manent Fisco così per Sport L'Ora del Pasto Le Storie del Figio ZEROSBATTI Capitani Coraggiosi La Vuelta 2024