CASSANI. Incubi e sogni di un ct

TUTTOBICI | 05/03/2014 | 08:20
Un incubo. Un incubo ricorrente, che ha accompagnato le notti di Davide Cassani dal 1973 a poco tempo fa: il soffitto che crolla improvvisamente sulla testa e lo riduce in poltiglia.
Un sogno. Un sogno anche questo ricorrente, che ha accompagnato gran parte dei suoi riposi, ma anche i mo­menti di ozio ad occhi aperti: fare il commissario tecnico della nazionale italiana. L’incubo è quasi del tutto do­mato, metabolizzato e superato. Il so­gno l’ha realizzato il 28 dicembre scorso sul calar della sera, quando è arrivata la tanto agognata telefonata di Re­na­to Di Rocco.

«È un sogno che si realizza e che continua - ci spiega il neo CT, 53 anni, ro­magnolo di Faenza, una bella carriera da corridore professionista alle spalle e un’altrettanto apprezzata e radiosa pa­rentesi durata 18 anni come commentatore dai microfoni delle reti Rai -. Da bambino il mio sogno era di fare il corridore, di partecipare ad un Giro d’I­ta­lia e a un campionato del mondo. E adesso ho l’onore di guidare la nazionale: è davvero un sogno che si avvera».

Dell’incubo ne parleremo tra un po’, per il momento ci soffermiamo sul questo sogno che rende il suo futuro a tinte azzurre. Davide Cassani ha tutto per riuscire bene: ha buon senso ed esperienza, conoscenza e capacità di dialogo. Con lui la nazionale ha trovato non solo un se­le­zionatore tecnico, ma so­­prattutto un vero ambasciatore del ciclismo, un di­vulgatore, un PR su due ruo­te: un po’ come lo era sta­to il compianto Franco Bal­le­rini.

Viene dalla scuola di Al­fredo Martini e come il magnifico rettore ha la capacità di far­si capire e fa­rsi ascoltare. Un mi­to, Alfredo, che in oltre 20 an­ni (dal 1975 al ’97) ha portato alla cau­sa della Nazionale 6 medaglie d’oro, 7 argenti e 7 bronzi. Un record assoluto.
«Lui è il mio punto di riferimento. Se penso alla Nazionale, non posso non pensare ad Alfredo, che per me aveva qualcosa di magico e magnetico: bastava che si accostasse con l’ammiraglia al mio fianco e io mi sentivo più forte, invulnerabile».
Davide Cassani lo incontriamo negli studi di Radio Deejay, dove ha da poco terminato la registrazione di una puntata della nuova trasmissione che conduce con Linus e Ste­fano Baldini (oro nella maratona alle Olimpiadi di Atene del 2004, ndr): Deejay Training Center (tutte le domeniche alle ore 12, ndr). È di buon umore e sorridente come po­che altre volte l’abbiamo visto.

«Cosa vuoi sapere: se sono felice? Mol­to. Ho coronato davvero il mio sogno di bimbo. Per me la maglia az­zur­ra era il traguardo, e questa meta l’ho raggiunta. Mi sono innamorato dei Mon­dia­li e dell’azzurro in occasione di Imo­la ’68: quel volo di Vittorio Adorni ce l’ho ancora negli occhi. Fu davvero una giornata magica. Ad ogni modo, per questo incarico devo ringraziare la Fe­derazione che mi ha dato questa op­portunità. Devo ringraziare Alfredo Martini che ha subito sposato l’idea della mia candidatura e l’ha sostenuta. Devo ringraziare tutti i team manager delle squadre italiane che mi hanno incoraggiato. Devo anche ringraziare Paolo Bettini, che si è mes­so a disposizione per darmi una mano e farmi entrare in questo ruolo nel migliore dei modi».

A proposito di Paolo Bettini: perché secondo te non ha raccolto quello che molti si aspettavano da lui?
«Non sarebbe giusto dare la colpa a Bettini. Paolo è stato cittì in uno dei periodi più difficili del ciclismo. Un periodo duro nel quale l’Italia è stata superata da altre nazioni tradizionalmente più indietro. E nel quale la credibilità del ciclismo ha subìto molti colpi. Poi, se un CT ha un Bettini in corsa, allora è a metà dell’opera. Se deve fare di necessità virtù, deve fare appunto di necessità virtù. Io so perfettamente che il mio ruolo non sarà semplice, ma so anche che molto dipenderà dai corridori. Un selezionatore deve mettere nelle condizioni migliori le società e i corridori che sono di inte­res­se azzurro. Deve saper leggere e decrittare il circuito, deve saper trasferire forza e passione: poi la gran parte del lavoro la devono fare i corridori. Su questo non ci sono dubbi. Alfredo è stato fenomenale a creare le condizioni di Squadra. Ha smussato angoli e annullato criticità. Ha cercato di far andare d’accordo anche i galli che c’erano nel pollaio. Poi in corsa c’erano i corridori. Sono loro i veri artefici di successi e sconfitte: nella buona e nella cattiva sorte».

Ma qual è stato il segreto di Alfredo Mar­tini?

«Lui è uno dei pochi maestri che ho avuto nella mia vita. Per nove volte ho corso in nazionale come suo uomo di fiducia. Farò il possibile per portare avanti, con qualche difficoltà, il suo insegnamento. È un onore, diciamolo, ma anche una grande responsabilità. Arrivare ai risultati di Alfredo sarà pressoché impossibile... Il suo segreto? Capire l’uomo. Creare delle squadre con un’anima. Cercare di far uscire il meglio da ogni corridore, anche il più modesto. Perché dietro ad un discreto corridore si può celare un grande uo­mo, con enormi risorse morali. Ecco, io voglio ripartire dall’uomo, il corridore viene dopo. “Bisogna stare uniti per ottenere un risultato vincente”, questo mi diceva Alfredo. “Avere un fine co­mu­ne”. Quando partecipavo ad un mondiale, non pensavo al mio risultato, ma al bene della Squadra. Sempre».

Quale sarà il tuo punto di partenza?

«Credo che per la nazionale sia necessario ripartire dai giovani senza buttare via i vecchi. L’esperienza conta, ci sono corridori esperti che possono insegnare ai molti giovani che abbiamo la fortuna di avere: vanno aiutati a crescere. Guar­dia­mo Nibali: fino a pochi anni fa, sembrava sempre un’eterna promessa. Invece, ora è uno dei più forti corridori del mondo. Noi di giovani bravi ne abbiamo tanti. Dobbiamo farli crescere, pur sapendo che, rispetto a qualche anno fa, ci sono altre squadre e altre nazioni che ci hanno superato».

Come ti comporterai con i ragazzi? Sarai un fratello maggiore o un cittì a tutti gli effetti?

«Serve autorevolezza, ne serve molta. Serve però soprattutto buon senso. Cer­cherò di essere un fratello maggiore, ma alla fine dovrò fare scelte do­lo­rose. Do­vrò portare nove corridori al cam­pio­nato del mondo e non sarà fa­cile dire di no a qualche giovane che sogna di arrivare in nazionale. È una bella responsabilità e lo farò mettendomi nei loro panni, ma restando in ogni caso nel mio ruo­lo, che a volte obbliga a scelte amare. Non è facile far correre assieme dei ra­gazzi che di solito pedalano l’uno contro l’altro. Cercherò di fare come mi ha insegnato Alfredo Martini... La maglia azzurra sarà un colore che uniformerà e unirà i sogni di tutti».

Aver fatto per 18 anni il commentatore televisivo, è un valore aggiunto o ti toglie qualcosa?

«Parlando con i direttori sportivi, mi hanno detto che anche loro, senza tv, avrebbero avuto dei grossi problemi a seguire una corsa. Io in televisione ci sono stato 18 anni, e quindi non sono stato fuori dall’ambiente. Ho sempre cercato di avere un filo diretto con i corridori e i direttori sportivi. Non essendo stato di nessuna squadra, ho potuto essere obiettivo. No, non penso di aver perso qualcosa in questo periodo. E comunque l’esperienza che ho fatto prima da corridore e poi da commentatore mi sarà utile in questa nuo­va avventura».

Pensi all’azzurro e la mente dove cor­re?...

«A papà Vittorio. L’ho perso quattro anni fa, e non c’è notte che io non mi corichi a letto senza pensare a lui. Era di poche parole, ri­spettoso come pochi, molto ri­servato e timido, e aveva una passionaccia per la bicicletta. Tifava Felice Gimondi e come me aveva la ma­lattia della maglia azzurra».

E la mamma?

«Mamma Maria non voleva che io corressi. Sperava che da buon ragioniere andassi a finire a lavorare in banca, ma alla fine anche lei ha dovuto deporre le armi».

La prima maglia azzurra?

«Da dilettante nel 1981: Italia B, diretta da Edoardo Gregori. Ricordo che per l’occasione presi anche il mio pri­mo volto aereo: Milano-Roma».

Cosa è cambiato da quando sei CT?

«Che prima il cellulare non suonava quasi mai, era morto. Ora è sempre morto perché è sempre scarico per le troppe chiamate. Su twitter, in una sola settimana, ho incrementato di oltre mille unità i miei followers. Passo le giornate al telefono, in certi momenti mi sembra di non poter stare dietro a tutto, ma è maledettamente bello…».

Cosa si prova a trovarsi dall’oggi al do­mani catapultato in questa nuova avventura?

«È vero fino ad un certo punto che questo traguardo io l’ho raggiunto dall’oggi al domani. Io a questo ruolo ci ho sempre pensato, anche quando purtroppo venne a mancare Franco (Bal­lerini, ndr), ma in quel momento non mi sentivo ancora pronto. Sono cose che devi sentire dentro di te: nel cuore ma anche nella pancia. A Fi­ren­ze, invece, sentivo davvero che quello sarebbe potuto essere il mio prossimo traguardo. Ne parlai con grande onestà con Paolo Bettini. Avevo letto anche su tuttoBICI (copertina di settembre: Paolo Bettini, il lento addio, ndr) che Paolo non si sentiva più a suo agio, che stava maturando qualcosa. Io quella sera, dopo la vittoria di Rui Co­sta, gli dissi: “Paolo, sappi che se tu decidessi di dare l’addio alla Na­zio­na­le, a me questo ruolo interessa parecchio”. La stessa cosa l’avevo espressa al presidente federale Renato Di Rocco. Puoi anche chiederlo a Francesco Pan­cani, grandissimo compagno di viaggio in questi anni in giro per il mondo: nell’ultimo anno sentivo di dover fare qualcosa di diverso».

Se Alonso ti avesse offerto il ruolo di Bet­tini, e Di Rocco la direzione della squadra azzurra, cosa avresti scelto?

«La Nazionale, senza alcun dubbio».

La prima maglia azzurra al Giro delle Regioni dell’81 vinto dall’Eddy Merckx dell’Est Sergei Sukhoruchenkov. Poi nove maglie azzurre da professionista più una da riserva, nell’83 ad Al­ten­rhein (Sviz­zera, primo Greg Lemond, 17° Saronni): che ricordi hai?

«Il primo mondiale da titolare nell’85 al Montello. Ero in camera con Fran­ce­sco Moser, un monumento del nostro sport. Io ero spaurito e disorientato come po­chi: lo guardavo e non credevo ai miei occhi. Ero rapito da quella figura imponente. Lavorai come un mat­to per gran parte della corsa, poi mi ri­tirai. Grande mondiale nel 1988: vittoria di Maurizio (Fondriest, ndr) e io terminai al 7° posto. Quello per me è uno dei ricordi più belli in maglia az­zurra. Il più bello in assoluto però re­sta quello del ’91, a Stoccarda: vinse Gianni (Bugno, ndr). Ero talmente felice ed emozionato che al termine della corsa restai in mezzo ai tifosi e ai fotografi a godermi la cerimonia della premiazione: che libidine. Fui il primo azzurro e uno dei primi corridori al mon­do ad avere in dotazione una ra­diolina per comunicare con Martini. Accadde al mondiale di Agrigento, nel ’94. Inizialmente restai a casa, e non la presi benissimo, poi venne fuori la positività di Gianni (sempre Bugno, ndr) alla caffeina e fui chiamato all’ultimo minuto. Ricordo che in quell’occasione caddi anche. Come del resto Bor­to­lami. A metà corsa fui io ad andare all’ammiraglia di Martini, gli dissi: “Alfredo, Fondriest e Furlan non stanno bene, Bortolo è caduto, qui bisogna cambiare qualcosa”. Decidemo di puntare su Chiap­puc­ci e Ghirotto, che arrivarono secondo e quarto (vinse Luc Leblanc, ndr)».

Scusa Davide, sei stato il primo a utilizzare le radioline e ora sei uno dei più acerrimi detrattori: come mai?

«Vanno contro l’intelligenza di un corridore. Capisco che può essere un ottimo strumento per avere più sicurezza in corsa, ma tolgono anche tanta fantasia alla corsa. Ci sono tecnici che abusano di questo strumento».

L’ultimo mondiale?

«In Colombia, nel 1995: vince Olano davanti a Indurain e Marco (Pantani, ndr) finisce terzo. Io a metà corsa mi fermo e Adriano De Zan mi invita a sa­lire in postazione tivù a commentare le fasi finali di quel mondiale. In pratica quel giorno mi sono svegliato corridore e ho finito opinionista. Poi nella primavera dell’anno successivo, sono sta­to chiamato dall’allora direttore di Rai Sport Marino Bartoletti a fare la spalla di De Zan. Ricevetti la telefonata in ve­ri­tà da Giovanni Bruno, che aveva lasciato le reti Mediaset per andare in Rai. La prima corsa da commentatore tecnico è stato il Giro di Sardegna del 1996».

La prima telefonata che hai fatto dopo la chiamata di Di Rocco?

«A mio fratello Fabio (classe ’56). Poi alla mia ex fidanzata Ester. Avrei tanto voluto chiamare papà Vittorio, che fa­ceva il camionista e nell’83, proprio per celebrare la mia prima maglia az­zurra, mise al proprio CB il nickname di “Da­vide azzurro”. Per lui era davvero il massimo che si potesse sperare. Era molto orgoglioso di quella cosa. Chissà cosa pensa adesso che mi vede come CT. Mi piace pensare che lui in qualche modo mi abbia guidato».

LA SMORFIA.

Ci vorrebbe il libretto che i napoletani usano per interpretare i sogni, per tradurre tutto in numeri, e anche Davide Cassani qualche oggetto simbolo e numero magico ce l’ha.

«È il 28 dicembre, sono a casa e sto sistemando le mie cose. Qualche anno prima nonna Scaletta mi regalò 2.000 lire che erano appartenute al nonno. Mi disse: “Conservale, ti porteranno fortuna…”. Io le ho sempre nel mio portafoglio. Quel giorno ritrovo anche il portafoglio che mamma aveva regalato a papà per un suo compleanno. Un portafoglio di coccodrillo con le sue iniziali  impresse (una V e una C) e dentro scritto a penna 4 gennaio 1954. Dentro ci trovo anche 500 lire. Dopo circa quindici minuti mi suona il cellulare: è il presidente Di Rocco che mi manifesta il desiderio che io vada a ri­coprire il ruolo di selezionatore azzurro. Il primo incontro con il presidente Federale ci sarà  esattamente il 4 gennaio 2014, nel giorno in cui papà Vit­torio avrebbe compiuto gli anni. Oggetti, date e ricorrenze: in questa storia c’è qualcosa di magico. E anche se non c’è, a me piace pensare che ci sia. È come se da quel posto in cui è papà Vittorio, in qualche modo mi ab­bia guidato. Da buon camionista…».

L’INCUBO

«Papà trasportava con il suo camion vino in giro per tutta Italia. Quando potevo, soprattutto in estate, mi portava con sé. Io ne ero felice e orgoglioso: viaggiavo con quel bisonte della strada assieme a mio papà, che nella mia men­te era davvero un eroe della strada. Papà ebbe un solo incidente nella sua vita: c’ero anch’io. Avevo solo 12 anni e facemmo un frontale con un’auto. Io stavo dormendo e mi svegliai di soprassalto: da quel giorno, tutte le notti, ho gli incubi. Ne sanno qualcosa i miei compagni di squadra. Nessuno voleva stare in camera con il sottoscritto. Chie­di a Maurizio (Fondriest, ndr) quando lo buttai giù dal letto in piena notte alla vigilia del mondiale del ’93. In preda agli incubi stavo sognando che il soffitto stava crollando sulla testa di Maurizio, così nel sonno mi sono alzato di scatto e l’ho buttato giù dal letto per salvarlo. Chiedi ad Alberto Volpi, quando anche lui, in camera con me, per poco non ha avuto un collasso perché come incubo aveva il sottoscritto che aveva gli incubi. Op­pure alla vi­gilia della Firenze-Viareggio dell’81, da dilettante, quando in piena notte ho cominciato a gridare aiutooo aiutooo aiu­tooo muoio e si sono svegliati tutti terrorizzati, compreso il sottoscritto, e al mattino facevo finta di nulla, per non far scoprire che quello che aveva urlato di notte ero stato io. Op­pu­re quando Moreno Argentin al campionato italiano di Camaiore del ’90 si svegliò di so­prassalto e chiese a Ma­riuzzo cosa sta­va succedendo e lui tranquillo gli rispose: “Stai tranquillo Mo­reno, è Cassani, il solito Cassani…”».

Ma oggi soffri ancora di incubi notturni?

«Molto meno, adesso molto molto me­no, anche se ogni tanto qualche notte un po’ agitata ce l’ho ancora...».

IL FUTURO

«Per decidere il futuro ne ho parlato an­che in famiglia: con i miei figli Ste­fano (24 anni) e Rebecca (21), ma an­che con la mia ex moglie Roberta. A lo­ro ho espressamente chiesto: “Cosa ne pensate se il babbo cambia lavoro?”. Loro sono la mia vita. Quella che dovevo fare era una scelta troppo im­por-tante, e non potevo non condividerla con loro. Alla fine ho avuto il loro più totale via libera».

Cosa fanno i tuoi ragazzi?

«Mio figlio sta facendo scienze motorie: è tutto calcio e basket americano. Ciclismo niente. Mia figlia frequenta una scuola di moda. Sono entrambi ti­fosi del Milan, come la mamma. Come ben sai io sono tifosissimo del Bolo­gna».

A parte Nibali, pensi di avere un buon ma­teriale umano?

«Molto buono, di questo ne sono realmente convinto. Io credo ciecamente in ragazzi come Diego Ulissi, Moreno Mo­­ser, Matteo Trentin, Enrico Batta­glin, Elia Viviani, Fabio Aru, Diego Rosa, Fabio Felline e via elencando: sono tutti giovani molto interessanti. Come ti ho detto, cercherò di puntare sui giovani senza buttare nel cassonetto i vecchi, perché loro serviranno per consentire la migliore maturazione di queste giovani leve».

Da corridore, qual è stato il corridore che più ti ha impressionato?

«Non ho dubbi: Bernard Hinault».

Da commentatore?

«Non ho dubbi: Marco Pantani. Di lui ho ricordi dal sapore diverso. La prima vittoria all’Alpe e poi quel viaggio di ritorno da Cava de’ Tirreni, dopo la caduta per colpa del gatto di Amalfi. Rimase zitto per più di due ore: poi, in un silenzio che più assordante non poteva essere, mi disse “ma perché ca­pitano tutte a me?...”. Per non parlare di quella notte di San Valentino, quando mi chiamò Marino Bartoletti per darmi la tragica notizia».

Davide, tu da anni sei allenatore di te stesso…

«Esattamente. Io cinque volte a settimana corro o vado in bicicletta. Lo sport e l’attività motoria sono la mia vita, la mia valvola di scarico, la mia passione. Recentemente ho corso la ma­ratona di Pisa in 2.45’25”. In­somma, mi piace sempre correre. Ora spero di saper far correre bene anche gli altri, ben sapendo che avrò un ruolo marginale, di raccordo perché, scusate se lo dico, ma chi va in bicicletta sono i corridori e sono loro che spesso ti tolgono da situazioni imbarazzanti. Io spero solo di non crearne».

Il tuo prossimo sogno?

«Ha tanti colori: è bellissimo. Spero non diventi un’ossessione, né tantomeno un incubo».

di Pier Augusto Stagi, da tuttoBICI di febbraio
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