Andrea Agostini rompe il silenzio e parla del suo amico Marco

INTERVISTA | 08/02/2014 | 12:00
«Dopo la morte di Marco sono rimasto in silenzio perché ho dovuto elaborare il dolore. In questi dieci anni ho sentito dire di tutto da parte di tutti. Anche di chi non ne aveva titolo. Io ero il suo migliore amico e secondo me parlarne ora vuol dire rendergli giustizia».

Coetaneo, compaesano, compagno di scuola e di squadra, addetto stampa, consigliere ma soprattutto amico: Andrea Agostini è l’Amico di Marco Pantani e da quel maledetto 14 febbraio 2004 si è chiuso in un mutismo ostinato ma dignitoso. Rispet- tabile, comprensibile: con la morte del Pirata se n’è andato quello che Nietzsche chiamava lo spirito dionisiaco, l’impulso irrazionale alla vita, l’altra metà di Ago- stini. Lui e il campione di Cesenatico erano la mitologica entità primordiale narrata nel Simposio: un tutt’uno, un incastro perfetto che, proprio come nell’opera di Platone, qualche divinità gelosa ha voluto tagliare in due per sempre.

«Il mio non vuole essere uno sfogo contro qualcuno o qualcosa - precisa Agostini, 44 anni -. Diversamente dal passato ho deciso di accettare quest’intervista perché è finito il tempo dell’introspezione».

Agostini, che cosa l’ha convinta a parla re?
«La scintilla mi è scattata davanti ad una trasmissione sul Tour vinto da Marco nel ‘99. Mentre guardavo le interviste dei primi giorni di corsa, ho notato il tipico sorrisino di Marco. E’ stato quello che ha chiuso il ciclo di lutto».

Il tipico sorrisino?
«Quel sorrisino beffardo a bocca storta aveva un preciso significato. Lui diceva una cosa ma io, che lo conoscevo come le mie tasche, sapevo che ne pensava un’altra. Difatti in quelle immagini tergiversava coi giornalisti. A chi gli chiedeva se era andato in Francia per fare classifica, lui rispondeva ‘vediamo’, ‘non so’. In realtà avevo capito che stava pensando al colpaccio. Anche se non si era preparato per vincerlo, quel Tour. Sappiamo tutti come è andata a finire».

Chi era Marco Pantani per lei? E lei cosa rappresentava per lui?
«Ero il suo migliore amico e viceversa. Anche se eravamo diversissimi. Io ero la parte che mancava a lui, lui quella di cui io avevo bisogno. Credo che ci volessimo bene anche e soprattutto per quello. Io ero il ragazzo studioso, più formale, equilibrato. Lui quello più creativo, geniale, giocherellone».

Il destino vi aveva ben assortito.
«A me piaceva il suo modo di essere. Sono convinto che come io lo ammiravo quando usciva col pantalone un po’ sbragato e il cappellino alla moda, lui facesse altrettanto con me quando mi presentavo in giacca e cravatta. Poi, è chiaro, certe ragazzate le ho fatte anch’io. Il bello è che le ricordo sempre e solo con lui: le prime morose, i primi viaggi all’estero...».

E la prima volta che l’ha visto?
«Mi ha dato un morso. Eravamo in prima elementare, alla scuola di viale Torino. Ce le siamo date e da quel momento siamo diventati amici. Alle medie, poi, siamo finiti in classe assieme e abbiamo rafforzato il nostro legame».

L’ultima?
«Impossibile dimenticarla. Era il 13 gennaio 2004, a Predappio, alla sua festa di compleanno».

Non era messo benissimo.
«Già. Mi fece rabbia vedere che molti di quelli che aveva attorno quella sera erano accondiscendenti. Litigai con lui. Gli dissi che era ora di darsi una regolata. Ma non voglio ricordarlo in quello stato, mi fa troppo male. Andiamo avanti».

Allora ci racconti l’immagine più bella che ha di lui.
«Sono due. Innanzi tutto la sua prima vittoria da pro nella tappa di Merano del Giro d’Italia ‘94. Ero da solo in camera mia davanti alla tv e dalla gioia mi sono messo a piangere come un bambino. Mentre si avvicinava al traguardo ho pensato ai nostri momenti assieme, alle difficoltà, al fatto che solo pochi mesi prima voleva smettere. Ecco, è come se fossi stato lì, a pedalare con lui».

L’altra?
«A Les Deux Alpes nel ‘98, quando prese la maglia gialla. Quella volta c’ero, come tifoso. Dopo la cerimonia di premiazione si fece largo in mezzo alla folla e mi venne a cercare. Si abbassò la zip del giubbino per mostrarmi la maglia gialla e mi disse in dialetto: ‘Hai visto quello che ho fatto?’. C’è pure un risvolto comico: la sera in camera sua ho vomitato per il freddo e per l’acqua che avevo preso. Pensi, Marco era rimasto in sella una giornata sotto il diluvio, aveva spianato le Alpi, messo le mani sul Tour ed era più fresco di me».

Un super uomo.
«Esatto. Quando qualcuno mette in dubbio la forza, il talento, la classe, la superiorità di Marco Pantani, io mi infurio. Lui è il più forte corridore che abbia mai conosciuto e, mi creda, di campioni ne ho visti tanti. Era capace di fare sette ore senza borraccia e con un pugno di noccioline. Una volta da ragazzi abbiamo fatto le Balze con quattro ore di sonno: la sera prima avevamo un po’ esagerato col divertimento. Centonovanta chilometri andata e ritorno, credo di aver recuperato in una settimana. Lui come se niente fosse, fresco come una rosa. Ha presente il celebre episodio del Carpegna, quando a 17 anni staccò in salita i pro Vandi e Savini?».

Sì, certo.
«Quel giorno c’ero anch’io ma ho girato la bici prima di Rimini, già in pianura. Il ritmo era impossibile...».

E’ lì che ha capito che Pantani sarebbe diventato Pantani?
«Sì, più o meno in quel periodo. Da juniores di secondo anno è arrivato ottavo alla Tre-3 bresciana, una corsa a tappe che lui ha affrontato con una settimana scarsa di preparazione perché aveva appena tolto il gesso ad una gamba dopo un incidente. L’ho visto piangere sul lettino del massaggiatore pur di rimettersi in forma. E tenga conto che ha affrontato la corsa con un tono muscolare ridcolo...».

Gli incidenti, una costante nella carriera di Pantani.
«Una volta a Fiumicino lungo la Rigossa si schiantò contro un furgoncino fermo sul lato della strada. Eravamo in tre, stavamo facendo lo scatto fisso. Lui era quello più a destra e non è riuscito a evitare l’impatto. Era una maschera di sangue, mi presi una paura...Come ‘ricordo’ gli è rimasta una cicatrice in faccia per tutta la vita».

Quanto ha corso con lui?
«Ho cominciato nei Giovanissimi della Fausto Coppi di Cesenatico e ho chiuso al terzo anno da dilettante, alla Giacobazzi. Poi ho fatto un altro anno e ho smesso. Me la cavicchiavo in volata ma di fronte a me avevo una generazione di talenti. Oltre a Marco c’erano Bartoli, Casagrande, Rebellin. Con questa gente non sarei mai passato pro. Oggi chissà...».

Pantani all’inizio non era neanche il più forte.
«Nei Giovanissimi vinceva quasi sempre Anthony Battistini. Poi c’era Cesare Cor- tesi che se la cavava. Marco era mingherlino, ha cominciato ad imporsi da Esor- diente».

E lei?
«Nel mentre mi allacciavo i cinghietti, Anthony mi aveva già doppiato. E poi cadevo sempre: che disastro! Però da Allievo ho iniziato a vincere. Sono venuto fuori con Filippo Baldassari e Francesco Buratti. Eravamo proprio un bel gruppo alla Fausto Coppi».

da «La Voce di Romagna» dell'8 febbraio 2014 a firma Emanule Conti
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COMMENTI
Emozione
8 febbraio 2014 20:07 pagnonce
Caro agostoni la tua testimonianza riempie ancor di più il vuoto che esiste e che nessuno degli attuali riesce a colmare.grazie per avermi fatto rivivere un vero personaggio.un vero campione.

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