
Pierino Gavazzi, 60 anni da compiere il 4 dicembre prossimo è stato uno degli sprinter di punta del plotone negli anni 80. Venti anni di intemerata carriera, tre titoli tricolori (‘78,’82,’88) , una Milano-Sanremo (1980), una Milano-Torino fra la ventina circa di grandi corse vinte. E un’idea ben precisa sul ciclismo di oggi che frequenta ancora perché il figliolo Mattia, talentuoso velocista come il padre (34 vittorie nella giovane carriera), ne ha raccolto l’eredità.
«Non possiamo chiudere gli occhi. Vogliamo parlare dei casi successi: da Riccò a Sella a Basso? Il doping è ancora diffusissimo. Oggi se non ti dopi è come andare in battaglia con arco e frecce contro i bazooka».
Ma come? Passaporto biologico; controlli a sorpresa; Uci e federazioni che lottano. E che protestano indignati se gli dici, come ha fatto Torri, che tutti sono dopati.
«A Torri dovrebbero fare un monumento per quello che fa. Certo, non si può dire tutti. Ma tanti, tantissimi, si. Quanto ai controlli, si tappano solo le falle. Mio figlio Mattia dice che sono furbi. Più furbi di lui che è stato fermato per la positività alla cocaina. Ma il doping con questo suo problema non c’entra».
Sarebbe a dire? Cocaina e doping, sono due mondi dai confini assai labili…
«La cocaina è un problema diffuso nel ciclismo molto di più di quanto non si creda. Volete sapere come ha cominciato mio figlio? In ritiro. A 18 anni: ora ne ha 27e tra Sert e psicologi è un calvario. Da junior era un talento, il suo sprint negli ultimi 50 metri era ed è irresistibile. Vinceva. E’ passato in una squadra di categoria superiore e lì sono cominciati i problemi. Nel chiuso dei ritiri talvolta si acquisiscono brutte abitudini. Fuori dal controllo dei genitori e della famiglia succede quello che succede. Purtroppo oggi la droga la trovi dappertutto».
Dunque il modello simil-professionistico imperante già nei 17-18enni è un modello sbagliato?
«Forse. Sei fuori casa, lontano dai tuoi, magari cominci per gioco e poi ti ritrovi con il problema. Non è la regola, ma i rischi ci sono. E forti. E quando se ne accorgono i genitori è troppo tardi».
Tre positività alla cocaina per Mattia, l’ultima nel marzo scorso alla Settima Lombarda…
«I dramma è proprio questo. Ora rischia la radiazione. Con la conseguenza che non potrà più fare il ciclismo agonistico, che comunque per lui è un momento di distrazione e di lontananza dalla droga. Ho una grande paura…»
Di cosa?
«Che si perda. Per questo sono andato a parlare con Torri che si è dimostrato aperto e comprensivo. Ho parlato anche con quelli dell’Uci, spero comprendano che quello di Mattia non è un problema di doping, purtroppo».
Da una parte il doping e dall’altra la droga, ma che razza di sport è mai questo?
«Sarebbe uno sport bellissimo, ma è malato dentro. Mattia mi ha detto che direttamente proposte di doping non ne ha avute, ma nell’ambiente non si parla altro che di sostanze, farmaci, pratiche più o meno lecite. E’ una catena, un passa parola continuo. E piano piano emerge l’idea che se non ti aiuti non riesci a competere. Vede, ai miei tempi c’erano gli stimolanti, ma se facevi la vita da atleta potevi emergere anche senza; oggi gira roba che fa una grande differenza. O ti adegui o smetti di correre».
da «La Repubblica» dell'11 ottobre 2010
a firma Eugenio Capodacqua
Certo, a dimostrare il contrario ci sono i casi di Pantani, Fois, Boonen, forse anche Jimenez (non mi ricordo bene ma mi pare di sì) e lo stesso Gavazzi, però sembrano casi, pur nella loro tragicità, isolati.
Mi pare che il ciclismo abbia già tanti problemi senza aggiungere anche questo. Fermo restando che comprendo la disperazione del genitore.