
Gino Bartali sosteneva che, andandosene dall’altra parte, ci si presenta spogli, o forse in un abito, un saio, una veste, ma senza tasche. Ivano Carrozzino si è presentato stamattina, ma ancora con un sogno, un desiderio, un progetto: trasformare, per una volta nella storia, il Giro dell’Appennino nel Mondiale di ciclismo.
Da un mese Carrozzino aveva compiuto 87 anni. Era un piccolo grande uomo, reso ancora più minuto dall’età. Ma la sua forza di volontà, che era anche fede - e non si capiva se fosse la volontà ad alimentare la fede o la fede a produrre la volontà -, era grande, quella di un giovane avventuriero. Era stata la vita a forgiarlo e irrobustirlo, più che fuori, dentro. Terza elementare, poi il lavoro, esercente rivenditore, insomma commerciante a Pontedecimo, periferia operaia di Genova. La prima bici a 14 anni: da pista, adattata a strada, cioè con i freni, perché sognare va bene ma meglio a occhi aperti. Coppiano, Carrozzino ricordava di avere visto Fausto anche a Pontedecimo, accompagnato da Sandrino Carrea e Ettore Milano, i suoi angeli custodi, su una salitella, scendere dalla bici e andare a trovare un bambino spastico. Forse a indicarglielo sarà stato Luigìn Ghiglione, patron del Giro dell’Appennino (allora si chiamava Circuito dell’Appennino).
In Carrozzino il ciclismo si accese nel 1971, quando sponsorizzò lo Sport Club San Quirico, ed esplose quando, nel 2002, fu eletto – alla unanimità, consumato stratagemma per impedire di tirarsi più indietro – presidente dell’Unione Sportiva Pontedecimo. Il suo primo Giro dell’Appennino nel 2003, e quasi a festeggiarne il battesimo, sulla Bocchetta Gibo Simoni migliorò il primato di Marco Pantani: 21’54”, due secondi meno di Marco Pantani nel 1995 e Pavel Tonkov nel 1996. Da allora c’era, da patron ma anche da manovale, a dirigere e rappresentare ma anche a spostare sedie o transenne.
Aveva una faccia un po’ così, Carrozzino, un po’ perché ogni giorno vedeva Genova, un po’ perché la sua faccia era una via di mezzo fra Eduardo De Filippo e Alfredo Martini. Aveva anche un fisico da scalatore, la Pulce della Bocchetta avrebbero potuto chiamarlo se avesse corso per agonismo, invece lui pedalava solo per passione, per istinto, per ispirazione. Alpi, Appennini, Pirenei. Mi disse che delle salite più prestigiose gliene mancavano tre: lo Stelvio, “che prima di morire lo voglio fare”, ma non credo che l’abbia fatto, lo Zoncolan e il Mortirolo, “che non voglio fare, altrimenti muoio”. Le altre, dall’Izoard all’Aubisque, dal Ventoux al Tourmalet, tutte raggiunte in piedi sui pedali. Sull’Agnello stava per rimanerci. Mi confidò: “Una tempesta di neve, improvvisa, in piena estate, stava per assiderarci. Ci ha salvati Imerio Massignan, su un furgoncino, riscaldandoci, massaggiandoci e dandoci da mangiare cioccolata”. Quanto alla “sua” Bocchetta, la prima volta l’affrontò a 60 anni, l’ultima a 76. Lassù, in cima, la Bocchetta regala a tutti una sensazione unica: sentirsi padroni del mondo. E forse era questo il motivo che spingeva il vecchio Ivano a curare, ancora e sempre, quella preziosa, sudata, coppiana eredità.