
Girava per Milano in bicicletta. Una bicicletta da donna. Che lui, con la sua discreta mole, sovrastava. Una presenza vistosa e visibile, ma mai per tutti gli automobilisti. Quella volta fu un uomo, parcheggiata la macchina a bordo strada, ad aprire la portiera senza guardare se qualcuno sopravvenisse. L’impatto fu inevitabile. Ciclista caduto in mezzo alla strada e porta, neanche a dirlo, mezzo sfondata. L’uomo, pentito e impaurito, si precipitò verso il ciclista. Quando scoprì che si trattava di Bruno Pizzul, svenne. Risultato: la vittima che rianimava il colpevole.
Raccontava quell’episodio, Bruno Pizzul, con la consueta consumata eleganza, il raffinato umorismo britannico-friulano, l’innata proprietà linguistica. E un giorno, a Siena, per il festival Ciclomundi organizzato da Ediciclo, ridestò (oltre a Massimo Citti e me sul palco con lui) a centinaia di ciclisti urbani, ciclisti pellegrini, ciclisti viaggiatori, ciclisti casuali e perfino (i senesi) ciclisti impossibili un senso di appartenenza alla strada, all’umanità, alla vita. La leggerezza, lui un bel quintale, della vita.
La vita non è più con Bruno, morto stamattina in ospedale a Gorizia. Non ci consola che avesse 87 anni meno tre giorni, perché un Pizzul dovrebbe essere immortale, anche senza microfono, anche senza telecronaca, anche senza cicloracconto, ma solo come presenza, come resistenza, anche come simbolo. Quello di un giornalismo equilibrato, sensato e – questa parola non ha più significato oggi – giusto. Nei toni, nei volumi, soprattutto nella verità. Il resto era materia – ben venga - da bar e osterie, eventualmente da salotti e redazioni.
La bicicletta fu la genesi di una vita palla-lunga-e-pedalare. Mamma cittadina, da Udine, apprensiva, teneva molto agli studi. Papà paesano, da Cormons, imperturbabile, macellaio, avrebbe voluto che Bruno mollasse presto i libri per dedicarsi dietro il bancone a tagliate e tritate. Per battere la concorrenza, il papà dribblò la mamma: “Alla prima insufficienza – disse a Bruno – ti regalo una bicicletta”. Bruno prese 5 in matematica. La mamma lo mandò a dormire senza cena. Il papà gli fece trovare, la mattina dopo, accanto al letto, una Torpado gialla nuova. Aveva vinto. E la bicicletta sarebbe rimasta tutta la vita. Bruno non avrebbe mai preso la patente (“Il mio fiore all’occhiello”), dunque mai guidato la macchina e si sarebbe sempre mosso su bus, tram e treni, passaggi in auto con i colleghi (Mario Poltronieri, che aveva macchine in prova) e gli amici (così ingombrante per le utilitarie: spesso le ginocchia in bocca), e a Milano in bicicletta, sfidando traffico e meteo, ladri e distratti. Lo incontravo – in bicicletta - fuori dalla scuola elementare, dove lui accompagnava o prendeva i nipoti, io i figli. “La mia velocità da crociera – mi spiegava – è pari a quella dei pedoni, così finisce che mi tollerano anche sui marciapiedi”. Di una bici andava orgoglioso: “Un omaggio concessomi qualche anno fa, durante un incontro a Bologna sul traffico sostenibile, una bici personalizzata – il mio nome per timidezza l’ho cancellato – assemblata con componenti di fabbriche italiane e battezzata ‘Pensieri e pedali’”.
Il calcio, la sua passione. Fisico imponente, ruolo stopper, puntando alle caviglie dei centravanti, detta alla Nereo Rocco “vinca il migliore? Speriamo di no”, ridetta alla Nereo Rocco “colpire tutto quello che si muove a pelo d’era, se è il pallone meglio”. Catania, Ischia, un infortunio al ginocchio allora significava la fine della carriera rotonda, per lui l’inizio di quella giornalistica. Nel senso della Rai. Concorso radiotelecronisti, assunto, era il 1969. A sbizzarrire la routine, la presenza del collega Beppe Viola. Fin da subito, la prima telecronaca, Juventus-Bologna, spareggio Coppa Italia, campo neutro di Como, era il 1970: Beppe lo tentò con un pranzo, Bruno si lasciò tentare, risultato: arrivati allo stadio a partita già cominciata da un quarto d’ora.
Pizzul faceva parte di quella generazione, l’ultima romantica, del giornalismo. Soprattutto alla Rai. Aveva libero accesso alla stanza numero 341, terzo piano, sezione giornalismo, occupata da Beppe Viola con il collega Fineschi, e qui si mangiava, si beveva, si scherzava, si rideva, si inventava, si produceva di tutto e per tutti, soprattutto si fumava liberissimamente. Per breve tempo Pizzul si alternò a Carlo Sassi con Heron Vitaletti alla moviola inaugurando processi che non si sarebbero mai esauriti con un giudizio preciso e sereno. Bruno obbedì per amor patrio (era alpino, diamine), ma quel ruolo di spione non gli era familiare. In un Juventus-Cesena l’arbitro aveva assegnato un rigore alla Juve per fallo di Cera su Bettega. Pizzul mostrò i fotogrammi “e l’immagine – come scrisse Viola - fu spietatamente contraria all’arbitro. Cera non aveva nemmeno sfiorato l’avversario. Pizzul non disse nulla, limitandosi a riproporre la sequenza un paio di volte finché intervenne Paolo Frajese, allora conduttore della Domenica sportiva, che disse: ‘Ma allora. Bruno, è rigore o non è rigore? Avanti, dillo!’. Pizzul a quel punto era con le spalle al muro. ‘Per me – disse il gigante buono – non è rigore’”. Fu il finimondo. E comunque Pizzul andò da Sassi e si liquidò: “Per me basta così. Vai pure avanti tu con quell’aggeggio”.
Telecronista della Nazionale dal 1986 al 2002. Era diventato la voce della Nazionale. Ma il gigante buono se ne intendeva, e molto, di ciclismo. Leggeva, seguiva, intervistava. Era ancora l’epoca in cui ci si incontrava, ci si confrontava. Lo si vedeva alle punzonature, Sanremo e Lombardia, lo si vedeva anche lungo le strade del Giro, Milano. Gli piaceva l’ambiente, il popolo, gli addetti, dall’operatore Chiaradia all’illustratore Giovetti, e i giornalisti, da Mario Fossati a Gianni Mura, e i corridori, tutti, dai campioni ai gregari, l’aria affumicata delle Sei Giorni, l’aria alcolizzata dei trani. Non se la tirava mai. Partecipava quando poteva: e, sia chiaro, gratis. Conduceva le riunioni e le cerimonie del Premio Emilio e Aldo De Martino, ci teneva moltissimo, come se fosse l’assegnazione dei Nobel.
Moglie, Maria, “la tigre”, tre figli (Fabio, convinto ciclista urbano anche lui) e 11 nipoti, uno squadrone. Dopo la Rai, Pizzul tornò a casa, a Cormons. Con gli amici. Carte, vino e bici. Mandi, Bruno.